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Dario Fo: un giullare che ha ottenuto il premio Nobel

Avarie
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14 Ottobre 2016

Egregio direttore,

Quando appresi la notizia del premio Nobel per la Letteratura conferito a Dario Fo nel 1997, con l’esclusione clamorosa di altri scrittori e poeti italiani, primi fra tutti Mario Luzi e Claudio Magris, mi domandai se quella non fosse una trovata beffarda dello stesso Fo e faticai a rendermi conto che la trovata era invece un atto ufficiale della regia commissione svedese cui compete la decisione inerente all’attribuzione di quel premio. La perplessità nasceva allora, e si ripropone adesso in occasione della sua morte, dalla difficoltà di disgiungere la sua attività di attore da quella di autore delle sue stesse opere, giacché è praticamente impossibile immaginarle senza di lui, senza la sua gesticolazione mimica, senza la sua trascinante oralità, in definitiva senza la sua presenza scenica, tutte straordinarie.

Ciò nondimeno, se, posta fra parentesi tale questione preliminare, si affisa lo sguardo sulle sue opere teatrali dal punto di vista letterario, giacché quello che gli è stato conferito era il Nobel per la Letteratura e non un premio per la sua bravura di attore, è quanto mai difficile sottoscrivere la validità del giudizio di cui quel premio fu il frutto. È assai difficile perché nulla vi è nelle opere di Dario Fo, dal punto di vista specificamente letterario, che superi il ristretto orizzonte della polemica politico-ideologica, pur valorosa e meritoria, di cui egli fu lo sghignazzante campione. Nulla vi è, in altri termini, che si possa ascrivere alla grandezza dell’arte e ad un’autentica universalità umana.
Valga il vero: se si leggono «Morte accidentale di un anarchico» (1970), «Pum! Pum! Chi è? La polizia!» (1972), «Non ti pago, non ti pago» (1974), «Il Fanfani rapito» (1975) e soprattutto quello che da molti viene considerato come il suo capolavoro, «Mistero buffo» (1969), l’opera che lo rivelò al vasto pubblico italiano e straniero creando, intorno a lui, la leggenda del grande ribelle e del “buffone” che trafigge i potenti con i suoi strali critici e le sue coraggiose denunce, secondo il costume dei giullari del medioevo; orbene, se si esaminano tali opere, troviamo forse in esse quella sintesi di forma e di contenuto, quella dimensione di universalità, quel rispecchiamento della realtà storica, che contraddistingue le grandi opere letterarie, comprese quelle teatrali? Non credo che sussistano dubbi sulla risposta da dare a questa domanda.
La verità è che Dario Fo è stato un attore/autore profondamente divisivo, destinato a piacere a chi (non tanto pensa quanto) sente come lui, ossia si identifica simpateticamente con la sua faccia, la sua mimica, i suoi gesti, il suo ‘grammelot’, il suo narcisismo, la sua dissacrazione a trecentosessanta gradi, la sua totale incapacità di assumere un punto di vista che non sia egocentrico, privo cioè di qualsiasi traccia di autoironia. Sennonché, date queste premesse puramente attoriali, affermare che Fo è stato un artista profondamente divisivo non significa evocare una differenza di contenuto ideologico, ma una diversità nella fruizione estetica della sua figura, talché la differenza non passa tra chi condivide le sue posizioni e chi non le condivide, ma semplicemente fra chi ama e chi detesta il suo aspetto fisico e il suo ‘rictus’ comico. In questo senso, egli è stato un artista radicalmente antibrechtiano, poiché, mentre il grande drammaturgo tedesco, chiamando in causa il ruolo svolto dalla menzogna nell’età contemporanea, riuscì ad incidere potentemente sulla problematica dell’ideologia e dunque sul rapporto che intercorre fra la passione per la realtà e la necessità della finzione, Fo ha compresso quella problematica in una farsa semplicistica, quasi puerile, dove il teatro resta il luogo in cui abitano la maschera e la finzione e il pagliaccio, che vi si accampa al centro, suscita con le sue mosse e i suoi sberleffi le grasse risate di un pubblico ingenuo, senza assolvere, se non a sprazzi e frammenti, il compito dialettico, autenticamente rivoluzionario, di “smascherare” l’oppressione e di “rivelare” la realtà.

Così, contrariamente a chi afferma che i contenuti delle opere di Fo emergono da un’ottica comica, perché inquadrati dal basso, da uno sguardo ingenuamente deformante, occorre rilevare che nell’ottica con cui Fo guarda ai suoi popolani non vi è nulla di ingenuo: essi non sono popolani ingenui, ma caricature di popolani ingenui. Anzi, sono, alla lettera, degli idioti, e dietro la loro idiozia s’intravede la smorfia dell’autore, che li manovra come burattini per veicolare un’interpretazione della storia che è più anarcoide che marxista (non la direi anarchica, perché i veri anarchici sono persone serie e non populisti ebefrenici). In conclusione, il ‘caso Fo’ ci insegna a capire che il riso comporta un grado elevato di complicità con il potere e con l’ideologia dominanti (vero, Crozza?), il che, ne convengo, non è facile da concedere. Che il riso non castighi i costumi ma li confermi, è certamente duro da ammettere. Ma è così. Il riso vale come critica solo se si aggiunge ad una critica che non ride: non può sostituirla. Bisogna sapere che la tirannide è tragica. Solo quando ciò è ben chiaro, come in Shakespeare o in Beckett, per citare a questo proposito altri autori fondamentali della storia del teatro, allora posso permettermi di fare entrare i clown.

In realtà, se si tiene conto che, in altri campi (ad esempio, la pace), il premio Nobel è stato attribuito a personaggi politici come Gorbaciov (?!) od Obama (?!) e ora, per tornare alla letteratura, ad un menestrello come Bob Dylan (?), l’assegnazione di tale premio a Dario Fo è stata veramente rivelatrice di quel conformismo culturale che ha consentito a personaggi letterariamente mediocri, ma ‘politicamente corretti’ (nel loro anticonformismo tanto esibito quanto apparente), di occupare spazi e visibilità sempre maggiori, fino ad assurgere, per l’appunto, a vere e proprie ‘istituzioni’, ottenendo, proprio loro che hanno fatto della lotta contro le istituzioni l’esteriore ragion d’essere della loro opera e delle loro battaglie, un vasto consenso di pubblico e una legittimità internazionale, laddove scrittori e pensatori ben più degni di costoro, persone che avevano qualcosa di serio da dire sui contenuti, sono stati costantemente esclusi.

 

Eros Barone

 

 

Commenti

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  1. Avatar
    Scritto da Felice

    Ovviamente se gli stessi premi nobel fossero dati a personaggi dichiaratamente schierati verso ideologie che potremmo definire “di destra” non avremmo avuto il piacere di leggere la lettera del sig. Barone che non perde occasione di farci sapere come la pensa.

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