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Gli antichi romani li costruivano, noi italiani li facciamo crollare

crollo cavalcavia
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21 Novembre 2017

Chi pensava che noi italiani fossimo con la nostra ingegneria civile i legittimi eredi di quegli antichi romani che sapevano costruire ponti capaci di sfidare i secoli dovrà ricredersi dopo i duri colpi che questa fama, che oggi è da ritenersi usurpata, ha dovuto incassare con tre ponti crollati in pochi mesi: quello di Annone Brianza (Lecco)  sulla strada statale 36 crollato il 28 ottobre 2016 (un morto), quello di Camerino (Ancona) sull’autostrada A14 crollato il 9 marzo 2017 (due morti) e quello di Fossano (Cuneo) crollato il 18 aprile 2017 per fortuna senza vittime. I tempi gloriosi in cui quella fama fu pienamente meritata risalgono quindi alla grande opera dell’“Autostrada del Sole”, concepita dalla mai troppo rimpianta Prima Repubblica e realizzata in soli otto anni (dal 1956 al 1964) con decine e decine di viadotti, un buon numero dei quali caratterizzati da grande ardimento ingegneristico.

La domanda che sorge di getto è allora la seguente: come mai resistono i ponti di pietra di duemila anni fa e crollano improvvisamente quelli di cemento che hanno pochi anni di vita? I tecnici rispondono spiegando che, a differenza di quanto pensavano i suoi inventori, e cioè che il calcestruzzo (un conglomerato di cemento, acqua, sabbia e ghiaia rinforzato con sbarre di ferro) fosse indistruttibile, nessuno in realtà sa quanto esso possa durare, giacché la resilienza di questo materiale dipende dalla qualità e quantità dei suoi componenti e dell’armatura metallica. La logica conseguenza che si ricava da queste notazioni tecniche è che, quando si verifica un crollo, o c’è stato un vizio di costruzione o sono mancati gli interventi per garantire lo stato di efficienza dell’infrastruttura. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, occorre sottolineare che ciò che soprattutto ha determinato i crolli è stata, oltre alla inesistenza dei sistemi di previsione e di allarme su base regionale, la mancanza dei necessari servizi e l’omissione di opere di manutenzione e di miglioramento, dovute sia l’una che l’altra alle minori somme che l’amministrazione pubblica ha destinato a tali scopi. Si tratta pertanto di individuare la causa di tali eventi, che deve essere ed è storica e sociale, quindi legata al ‘modus operandi’ di coloro che controllano oggi le leve dell’amministrazione statale e locale italiana. D’altronde, non è questo solo un fenomeno italiano, ma di tutti i paesi capitalistici: disordine amministrativo, ruberie, imperversare dell’affarismo nelle decisioni della macchina pubblica, sono ormai denunciati dagli stessi conservatori e negli Usa sono stati posti in relazione anche con i pubblici disastri (si ricordi, ad esempio, l’alluvione di New Orleans del 2005).

Eppure la storia dell’amministrazione italiana, a partire dall’unità nazionale, dimostra che essa all’inizio funzionava bene, aveva forti poteri e non mancavano quadri direttivi e funzionari statali pronti a prodigarsi e meno condizionati da fini di lucro. A questa borghesia non difettava, insomma, la carica dell’entusiasmo per liquidare le resistenze dei vecchi poteri e delle macchine statali delle varie parti in cui il paese era prima politicamente suddiviso. Gli imbrogli dovevano cominciare col trasformismo bipartitico del 1876, di cui quello odierno, per la sua natura oligarchica e notabilare, è solo una brutta copia. Sennonché, a mano a mano che il sistema capitalista si sviluppa in profondità ed estensione, la burocrazia subisce un doppio assalto alla sua egemonia ed al suo rigore gestionale. Nel campo economico i grandi imprenditori di opere pubbliche e di settori della produzione assistiti dallo Stato moltiplicano le pressioni. Parallelamente, nel campo politico il diffondersi della corruttela nel costume parlamentare fa sì che ogni giorno i “rappresentanti del popolo” cerchino di influire sulle decisioni dell’ingranaggio esecutivo e dell’amministrazione generale, che prima funzionava con rigida impersonalità e imparzialità. Le opere pubbliche che prima venivano progettate dai professionisti più competenti, del tutto indipendenti nei loro giudizi e pareri, cominciano ad essere imposte dagli esecutori. Questo processo si aggrava nel periodo giolittiano, e tuttavia la situazione di crescente prosperità economica fa sì che i danni siano meno evidenti. Dopo la grande guerra la borghesia italiana “cambia spalla al suo fucile” e si ha il fascismo. Il concentrarsi della forza poliziesca dello Stato, insieme con il concentrarsi del controllo di quasi tutti i settori dell’economia, permette non solo di evitare l’esplosione di moti radicali delle masse e di assicurare alla classe padronale ampi margini di azione, ma anche, grazie alla centralizzazione delle decisioni, di garantire una maggiore efficienza della prevenzione, della manutenzione e dei controlli inerenti allo stato di efficienza delle infrastrutture (ponti, fiumi, porti, eventi sismici ecc.). In altri termini, l’amministrazione e la tecnica borghese avevano anche allora scopi di classe, ma erano una cosa seria: oggi sono soltanto dei carrozzoni che la regionalizzazione delle competenze e dei poteri ha reso ancora più pletorici, costosi e inefficienti di quelli statali.

La deriva che ha portato ai crolli in parola è quindi il frutto di un processo che trae origine dalle vicende secolari di un regime di classe. Ormai il capitale non è in grado di assolvere la funzione sociale di trasmettere il lavoro dell’attuale generazione alle future e di utilizzare per questa il lavoro delle passate. Esso non ricerca appalti di ordinaria manutenzione, ma solo giganteschi affari legati alla costruzione di opere pubbliche (si pensi al Tav della Val di Susa o al Terzo Valico genovese o ancora al faraonico progetto della costruzione del ponte sullo stretto di Messina). Sono dunque destinati a restare il classico libro dei sogni, oltre ad azioni veramente incisive dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (puro fumo negli occhi), progetti elementari come fare un censimento completo delle opere pubbliche (strade, ponti, gallerie, stazioni, ferrovie, scuole, ospedali, musei e tutti gli altri edifici aperti ai cittadini) per verificare seriamente quali di esse possano durare, quali vadano ristrutturate e quali invece sia meglio che vengano demolite prima che causino disastri. Altrettanto utopistico, in un regime capitalistico, mafioso, cleptocratico e clientelare come quello attualmente predominante nel nostro paese, è il progetto di rivedere i criteri di assegnazione dei lavori pubblici, eliminando la piaga delle tangenti ed evitando di indire quelle gare d’appalto con il massimo dei ribassi che poi spingono le imprese più spregiudicate a risparmiare sulla qualità dei materiali e del lavoro. Ancora una volta è chiaro come il sole che l’unica soluzione dei problemi che sono stati esposti è una rivoluzione che strappi gli artigli alle classi possidenti e ai detentori attuali dei mezzi di produzione.

Eros Barone

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