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Gli “spigolatori”

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5 Ottobre 2015

Si spostano da un cassonetto ad un altro cassonetto, ciascuno con il suo portaspesa a rotelle dalla tela stinta e consunta, frutto anch’esso di quell’attività di riciclaggio e di ri-uso che svolgono sistematicamente rovistando tra i rifiuti alla ricerca di qualcosa che possa ancora servire, di oggetti che, per quanto consumati, sporchi e difettosi, possano soddisfare un bisogno primario per sé e per la propria famiglia. Chi sono costoro? Li indicherò con un termine elegante che trae origine dal linguaggio agricolo e viene adoperato dalla stampa spagnola per qualificare questi nuovi personaggi dell’emarginazione metropolitana: spigolatori. Immigrati extracomunitari quasi sempre dalla pelle scura, ma talvolta anche europei ed italiani, sono gli ‘spigolatori’ dei rifiuti, navigatori esperti del gran mare di immondizia prodotto giornalmente da un iperconsumismo bulimico, di cui essi costituiscono l’altra faccia, quella nascosta e forzatamente sotto-consumista.

Una nuova razza di ‘miserabili’ e di ‘dannati della terra’, che ci ricorda come i tempi e gli ambienti descritti da Victor Hugo e i soggetti sfruttati ed oppressi rappresentati da Frantz Fanon facciano parte del nostro distratto ed immemore presente allo stesso modo in cui, a quanto dicono gli esperti, per ogni cittadino che si muove nel nostro ambiente urbano ci sono, a pochissimi metri di distanza, almeno tre topi che scorrazzano nel mondo sotterraneo delle cloache, delle cantine, dei vicoli, dei magazzini.

Sennonché ciò che colpisce non è tanto questo fenomeno sociale che chiunque può facilmente riscontrare nelle strade e nelle piazze, e segnatamente nei quartieri residenziali delle nostre città, quanto l’indifferenza degli abitanti autoctoni di questi quartieri, in apparenza per nulla toccati da uno spettacolo che dovrebbe pur suscitare, per la barbarie e per la degradazione di cui è indice e sintomo, un moto di reazione morale, un gesto di umano interessamento, un senso di apprensione. Invece, catafratti in una corazza di indifferenza e di cinismo, facciamo finta di nulla e volgiamo altrove lo sguardo, come se questi bipedi silenziosi che frugano nei cassonetti e ne estraggono chissà quali dovizie, fossero dei ‘marziani’ appartenenti, come i topi, ad un pianeta invisibile da sottoporre, quando un certo numero di essi si rende visibile, ad una pronta elusione e ad una immediata scotomizzazione.

Ciò che avveniva, per una sorta di patto rituale e consensuale, nell’antica civiltà cinese, ove i prodotti della evacuazione delle classi ricche venivano raccolti con cura e usati dai contadini per concimare i loro campi migliori, avviene ora nella nostra civiltà del benessere decrescente e del malessere crescente in una forma spontanea e non codificata. Chiaramente in questo fenomeno la coscienza degli autoctoni registra in modo oscuro una sorta di tacita compensazione che, all’insegna di una carità difensiva, è necessario concedere ai bisogni più elementari di soggetti che sono fin troppo visibili quando arrivano nei nostri territori, ma che diventano poi invisibili quando, senza lavoro e mezzi di sussistenza, vi si stanziano. Fermo restando che la merce non sfamerà mai il mondo, come è stato giustamente asserito dagli analisti più avvertiti dell’economia contemporanea, resta allora da vedere quanto tempo debba ancora passare prima che alla carità, virtù rispettabile ma nel contempo del tutto funzionale al mantenimento di un sistema profondamente iniquo di cui costituisce l’aroma etico, subentri la giustizia, virtù necessaria per ogni uomo che intenda camminare eretto e cooperare con i suoi simili, attraverso un lavoro collettivo, alla costruzione di una società di liberi e di eguali.

Eros Barone

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