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Il testamento dei monaci algerini uccisi nel 1996

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24 Gennaio 2017

Si parla molto in questi settimane del valore della “NONVIOLENZA” tema centrale del documento della giornata per la Pace scritta da Papa Francesco per il 1° gennaio 2017. Valore, la “NONVIOLENZA”, visto dalla maggioranza della pubblica opinione e dagli attuali esponenti della politica, come una cosa idealistica, utopica, professata da persone ingenue che vivono fuori dal mondo. Un mondo ormai dominato dalla 3° guerra mondiale inarrestabile, con il commercio e la produzione delle armi, ritenuto dalla finanza internazionale, come motore principale della economia mondiale.

Eppure anche nella storia recente ci sono stati atti eroici della “nonviolenza” che andrebbero ricordati più spesso, come per esempio la morte dei sette monaci trappisti del monastero di Tibhirine in Algeria sequestrati nella notte del 26 marzo 1996 e uccisi il 21 maggio seguente. Una strage ricordata poi in quel bellissimo film “GLI UOMINI DI DIO”. Episodio che ho ritrovato nel libro di Paolo Farinella nel suo libro “PECCATO E PERDONO” un capovolgimento di prospettiva, a cui va tutte la mia personale gratitudine per le parole nuove con cui bisogna accostarsi oggi al Vangelo.

Nel testamento spirituale di Padre Christian de Chergè c’è tutta la lucidità del suo impegno per la pace e la fratellanza con tutti gli uomini della Terra, oggi reso di nuovo attuale dal messaggio di Papa Francesco sulla “nonviolenza”

TESTAMENTO DI PADRE CHRISTIAN DE CHERGE’

Se mi capitasse un giorno – e potrebbe essere oggi – di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia
famiglia, si ricordassero che la mia vita era “donata” a Dio e a questo paese. Che essi accettassero che l’unico Signore di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale.

Che pregassero per me: come essere trovato degno di una tale offerta? Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato. La mia vita non ha valore più di un’altra. Non ne ha neanche di meno. In ogni caso non ha l’innocenza dell’infanzia.

Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca. Venuto il momento, vorrei poter avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nello stesso tempo di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito. Non potrei augurarmi una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo. Non vedo, infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che questo popolo che io amo venisse indistintamente accusato del mio assassinio. Sarebbe pagare a un prezzo troppo alto ciò che verrebbe chiamata, forse, la “grazia del martirio”, doverla a un Algerino, chiunque sia, soprattutto se egli dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l’Islam. So di quale disprezzo hanno potuto essere circondati gli Algerini, globalmente presi, e conosco anche quali caricature dell’Islam incoraggia un certo islamismo.

E’ troppo facile mettersi la coscienza a posto identificando questa via religiosa con gli integrismi dei suoi estremismi.

L’Algeria e l’Islam, per me, sono un’altra cosa, sono un corpo e un anima. L’ho proclamato abbastanza, mi sembra, in base a quanto ho visto e appreso per esperienza, ritrovando così spesso quel filo conduttore del Vangelo appreso sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima Chiesa proprio in Algeria, e, già allora, nel rispetto dei credenti musulmani. La mia morte, evidentemente, sembrerà dare ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo, o da idealista: “Dica, adesso, quello che ne pensa!”. Ma queste persone debbono sapere che sarà finalmente liberata la mia curiosità più lancinante. Ecco, potrò, se a Dio piace, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i Suoi figli dell’Islam così come li vede Lui, tutti illuminati dalla gloria del Cristo, frutto della Sua Passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre di stabilire la comunione, giocando con le differenze. Di questa vita perduta, totalmente mia e totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per questa gioia, attraverso e nonostante tutto. In questo “grazie” in cui tutto è detto, ormai della mia vita, includo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici di qui, insieme a mio padre e a mia madre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, e a loro, centuplo regalato come promesso! E anche te, amico dell’ultimo minuto che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo “grazie”, e questo “a-Dio” nel cui volto ti contemplo. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in Paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen! Inch’Allah.

Algeri, 1° dicembre 1993 Tibihrine, 1° gennaio 1994

EMILIO VANONI

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