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La crisi della grande distribuzione

Avarie
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24 Febbraio 2017

Egregio direttore,

“Carrefour”, una delle aziende di punta nel settore della grande distribuzione commerciale, ha avviato le procedure per la messa in mobilità di 620 lavoratori distribuiti su 32 ipermercati in tutta Italia. È quindi il caso di riflettere sulla fase attuale e sulle prospettive di tale settore, il cui straordinario sviluppo risale nel nostro paese al periodo precedente la “grande crisi” del 2007/2008. Questo sviluppo ha portato alla proliferazione di un numero sproporzionato, a volte demenziale, di punti di vendita (ipermercati e centri commerciali), situati nelle periferie delle grandi città (basti pensare a Cinisello Balsamo). Quali sono state le cause di questa proliferazione? Certamente, la liberalizzazione del commercio con la riduzione progressiva di ogni limite di orario di apertura e di tipologia di vendita, i finanziamenti pubblici per la riqualificazione delle aree dismesse dell’industria e pure l’opportunità per la criminalità organizzata di utilizzare la grande distribuzione per il riciclaggio del denaro sporco. Sennonché oggi la crisi della grande distribuzione è sotto i nostri occhi.

Orbene, prima di analizzare le cause di questa crisi conviene richiamare alcuni concetti esposti da Marx nel “Capitale” riguardo al capitale commerciale e al lavoro che viene impiegato nel commercio (il riferimento è alla quarta sezione del III libro del “Capitale”). Tali concetti riguardano i mutamenti di forma del capitale da merce in denaro e da denaro in merce, cioè il processo di circolazione del capitale, che è necessario per la realizzazione del plusvalore. Tutto ciò, osserva Marx, «costa tempo e forza-lavoro, ma non per creare valore, bensì per produrre la conversione del valore da una forma nell’altra». I costi di circolazione delle merci non aggiungono nuovo valore alle merci stesse e il capitale sborsato per la loro circolazione appartiene ai costi improduttivi, funzionali alla riproduzione capitalistica allargata. Il capitale commerciale è, comunque, una parte del capitale monetario complessivo, una parte del capitale anticipato per la produzione; quindi il processo complessivo di riproduzione allargata comprende anche il processo della vendita-consumo delle merci, mediato dalla circolazione, in cui il capitalista commerciale si appropria di una parte del plusvalore già contenuto nelle merci. Chiaramente il capitalista commerciale immette nei processi di circolazione una quantità di valore inferiore, nella forma di denaro, rispetto a quella che poi ne estrarrà, ma questo avviene perché ciò che viene introdotto nella circolazione in forma di merce è già comprensivo di una quantità maggiore di valore. Il saggio medio del profitto (plusvalore / capitale costante + capitale variabile) viene infatti calcolato in base al capitale produttivo totale, aggiungendo ad esso il capitale commerciale. Il capitalista industriale, il “produttore diretto”, non vende al commerciante le merci al loro prezzo di produzione, ossia al loro valore, ma ad un prezzo inferiore. L’effettivo prezzo della merce sarà quindi uguale al suo prezzo di produzione aumentato del profitto mercantile (commerciale). Il prezzo di vendita del commerciante è superiore a quello di acquisto di una data merce, perché il prezzo di acquisto è stato inferiore al valore totale della merce. In questo modo il capitalista commerciale partecipa alla ripartizione del profitto complessivo e se ne appropria con il lavoro non pagato dei suoi lavoratori.

Tornando all’analisi delle cause della crisi della grande distribuzione commerciale, molti sono i fattori: l’ipertrofico proliferare dei punti vendita, di cui si è detto, l’espansione dell’“hard discount”, la diffusione della spesa via Internet,  il cambiamento dei gusti di una parte dei consumatori che preferiscono al prodotto massificato i mercatini ‘online’, le botteghe e i gruppi di acquisto, ma soprattutto la contrazione dei consumi provocata dalla crisi economica mondiale. Tutti fattori reali, legati alla concorrenza intercapitalistica, ma che non prendono in considerazione, o tendono ad occultare, la causa principale, che è costituita anche in questo settore della circolazione delle merci dalla crisi di sovrapproduzione. È sufficiente infatti entrare in un centro commerciale per essere colti da un senso di vertigine e chiedersi nel contempo: “Ma chi comprerà tutte queste merci?”. La sovrapproduzione si riferisce naturalmente al consumo cosiddetto ‘di massa’, ovvero alla produzione di merci che rientrano nel consumo per la riproduzione della forza-lavoro ai livelli storicamente determinati. Per queste merci la domanda solvibile è costituita sostanzialmente dai salari dei lavoratori (salario diretto, indiretto e differito). Come è noto, i salari dei lavoratori sono in forte calo da qualche decennio e, di conseguenza, la sproporzione fra domanda e offerta tende costantemente ad aumentare. In un sistema concorrenziale puro, ipotizzabile solo in astratto,  una situazione come quella descritta dovrebbe portare o a una distruzione delle merci in eccesso o a un calo drastico del prezzo delle merci in circolazione. Ma nulla di tutto questo avviene. Come si spiega questo fenomeno?

La risposta è la seguente: per quanto riguarda il livello dei prezzi, esso viene mantenuto artificialmente alto attraverso una politica monetaria espansiva basata su un aumento esponenziale del credito al consumo e quindi del debito privato, come si è visto negli USA prima dello scoppio della bolla immobiliare determinato dall’aumento delle insolvenze. Una politica monetaria simile viene ora messa in pratica dalla BCE di Mario Draghi con l’azzeramento del costo del denaro e con il “quantitative easing”: tutte modalità con cui si cerca vanamente di esorcizzare lo spettro triforme della duplice crisi di sovrapproduzione e di sovraccumulazione del capitale con la correlativa caduta tendenziale del saggio di profitto. Un articolo che mi è capitato di leggere sul sito ‘online’ de “la Repubblica” di qualche mese fa suggeriva, peraltro, un’interpretazione ‘classista’ della crisi della grande distribuzione e del modello dei centri commerciali. Secondo tale articolo, la crisi dei centri commerciali non dipenderebbe dall’avanzata delle vendite ‘online’ o della ‘share economy’. La crisi sarebbe dovuta invece all’aumento delle disuguaglianze sociali, cioè alla polarizzazione nella distribuzione della ricchezza e quindi all’impoverimento della ‘middle class’, comprensiva di ceto medio e classe operaia, che porta con sé la crisi di quel modello di supermercato interclassista, trasversale, che si rivolgeva alla famiglia media americana. Infine, vi è da considerare che la funzione di ‘socializzazione’ esercitata dai centri commerciali ha sostituito quella un tempo svolta da sindacati, partiti, associazioni civiche, ivi comprese le chiese, che hanno perso gran parte del proprio ruolo storico come centri d’incontro e di vita collettiva. Concludendo, le proposte di parte capitalistica per superare la crisi non potranno che acuire tutte le contraddizioni in essere, anziché risolverle. Gli interessi dei grandi costruttori, dei politici locali e dei capitalisti della grande distribuzione commerciale tendono, infatti, a perpetuare un modello ormai obsoleto, incentrato sulla mercificazione e sull’alienazione totale non solo del consumo, ma anche del tempo libero e della vita dei lavoratori. Se il ritorno al piccolo commercio vicinale è un’utopia piccolo-borghese, il progresso ulteriore della grande distribuzione è invece una sorta di “cattivo infinito” destinato ad aggravare la crisi di sovrapproduzione, peggiorando le condizioni dei lavoratori di questo settore e fornendo alla popolazione merci e servizi sempre più cari e di qualità sempre più scadente.

Eros Barone

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