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La crisi organica della borghesia e la scissione del PD

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20 Febbraio 2017

Egregio direttore,

Non vi è dubbio che la scissione del PD si inserisce nel contesto di una crisi organica della borghesia italiana, che scuote, dal punto di vista del consenso, l’egemonia delle sue frazioni maggioritarie. Così come non vi è dubbio che il detonatore di tale crisi è il venir meno del consenso della piccola e media borghesia al disegno di integrazione europea che il grande capitale e i partiti maggiori che ne rappresentano gli interessi avevano individuato come orizzonte strategico per l’Italia. Si tratta di una crisi dei partiti tradizionali che è in atto a livello continentale, ma che assume forme e caratteri specifici nel nostro Paese. La frana che si è determinata nella sovrastruttura politica dello Stato è, peraltro, la conseguenza di tre scosse telluriche, dotate di un elevato potere disgregante, che si sono verificate in rapida successione: la Brexit, l’elezione di Donald Trump negli USA e il risultato del referendum sulla riforma costituzionale con la vittoria del NO in Italia. Il principale effetto della crisi organica è, nel campo della rappresentanza politica, la rottura della prospettiva bipolare, che sembrava essersi imposta nella cosiddetta “seconda repubblica” e che oggi risulta impraticabile non solo alla luce della sentenza della Consulta che ha reintrodotto un sistema elettorale di tipo proporzionale, ma anche in séguito alla frantumazione dei poli preesistenti e all’emergere di una forza politica autonoma, il Movimento 5 Stelle, il quale ha catalizzato, con la sua azione bifronte, il voto di protesta di ampi settori delle masse popolari e della piccola e media borghesia.

Il Partito Democratico è stato finora il partito più conseguentemente legato al grande capitale monopolistico, espressione politica della necessità di riforme strutturali per il rilancio della capacità di rispondere alla crisi da parte dei principali settori capitalistici nazionali. Dunque, l’espressione della frazione più europeista delle classi dominanti, capace di esercitare attraverso il suo legame ideale con la sinistra la maggiore influenza sulle masse progressiste e nei sindacati confederali, in modo da realizzare le politiche antipopolari riducendo al minimo i conflitti sociali. Nell’àmbito della politica estera, la fedeltà dell’Italia alla UE e alla NATO è stata inoltre garantita da tale partito in una fase di crescenti scontri interimperialistici: fedeltà riconosciuta anche con l’investitura di un’esponente di questo partito al ruolo di rappresentante della politica estera dell’Unione Europea. Fedeltà al profitto e fedeltà alle alleanze internazionali sono state, del pari, apprezzate dalla Confindustria, la quale si è espressa in senso favorevole alla politica del governo e gli ha fornito un sostegno esplicito sulle principali riforme e sull’indirizzo strategico. Tutto ciò ha permesso al Partito Democratico di scalzare il centrodestra nella guida del Paese, disarticolandone la composizione e legando a sé i settori centristi ed europeisti.

D’altra parte, se il PD è riuscito a mantenere le proprie posizioni fino ad ora, evitando, a livello nazionale, sconfitte di portata pari a quelle registrate dagli altri partiti socialdemocratici, questo è dipeso principalmente da due ragioni. La prima è quella di aver fondato il consenso alla propria azione sulla prospettiva della riformabilità dei vincoli di bilancio della UE e su una politica di maggiore flessibilità a livello europeo. Si tratta di una strategia che, rispondendo agli interessi strutturali del grande capitale italiano, assicura, sì, la partecipazione alla UE, ma in forma critica rispetto agli indirizzi economici prevalenti nel contesto comunitario. Tale strategia è stata confortata dal vasto consenso di quei settori popolari e della piccola borghesia che temono l’instabilità derivante da possibili rotture e ripongono la propria fiducia in una linea di subordinazione, ponendosi così alla coda degli interessi strategici del grande capitale. La seconda ragione è legata alla figura di Renzi, il quale, accreditandosi come figura nuova capace di portare l’Italia fuori dalla crisi, ha saputo incarnare per tutta una fase un’immagine di pragmatismo e ricambio generazionale, con la correlativa “rottamazione” del precedente ceto politico di provenienza PCI-PDS-DS-PD, contiguo agli apparati della CGIL. Sennonché questo ceto politico profondamente screditato, che costituisce la minoranza interna di D’Alema e di Bersani, ha reagito alla sconfitta del SÌ nel referendum cogliendo il momento favorevole per arrivare alla resa dei conti con Renzi. Così, quando la crisi della prospettiva di una maggiore flessibilità nelle politiche di bilancio, nonostante tutti i tentativi esperiti, è apparsa evidente, si è, ad un tempo, spezzato il legame tra grande capitale e piccola e media borghesia e si è prodotta la scissione del PD. Poiché la crisi organica della borghesia italiana è destinata ad approfondirsi e le classi dominanti hanno perso il loro piccolo Bonaparte, il meno che si possa dire è che i tempi che verranno saranno molto interessanti.

Eros Barone

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