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La dialettica tra estraneità e appropriazione

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1 Gennaio 2009

Egregio direttore,
una riflessione particolarmente illuminante sulla gènesi della nozione di Occidente e sul suo costitutivo intreccio con quella di Oriente si può ricavare da un passo del poemetto di Thomas Stearns Eliot, “The Waste Land”, pubblicato nel 1922. Dopo aver tracciato un quadro della decadenza del mondo contemporaneo, il raffinato poeta inglese di origine statunitense, citando fra l’altro un verso di Dante, del quale era un appassionato cultore, così descrive una scena invernale ambientata a Londra: “Città irreale, / Sotto una nebbia bruna di un’alba d’inverno, / La gente si riversava sul London Bridge, tanta, / Ch’io non avrei creduto che morte tanta n’avesse disfatta. / […] / Lì vidi uno che conoscevo e lo fermai gridando: “Stetson! Tu che stavi con me sulle navi a Milazzo!””.
Ma che cosa ìndica la battaglia navale di Milazzo fra Romani e Cartaginesi, cui si riferisce l’autore della “Terra desolata” in questo concitato richiamo ad un suo conoscente incontrato sul London Bridge? Si può rispondere osservando che questo evento militare della prima guerra punica, che ebbe luogo nel 260 avanti Cristo, riveste un significato cruciale per la storia della civiltà, in quanto segna la vittoria dei Romani, identificati come rappresentanti della civiltà occidentale, sui Cartaginesi, identificati come espressione di quella orientale. Sennonché, qualche anno dopo questa battaglia, nel 204 avanti Cristo, mentre la seconda guerra punica volgeva alla fine e Annibale e il suo esercito, che avevano portato un attacco potenzialmente micidiale al cuore della repubblica romana, venivano sconfitti e si imbarcavano per l’Africa, i Romani adottavano un culto orientale, il culto della frigia madre degli dèi, adempiendo in tal modo una profezia.
Orbene, dopo aver rammentato la grande importanza che la màntica, ossia l’arte della divinazione, aveva nel mondo antico, è naturale domandarsi che cosa mai rivelasse questa profezia. La risposta è che tale profezia assicurava che gl’invasori cartaginesi sarebbero stati cacciati dall’Italia solo se fosse stato introdotto a Roma il culto della grande dèa orientale. Vale la pena di aggiungere che Annibale non avrebbe mai potuto immaginare che l’Europa, che aveva contrastato e respinto l’attacco militare sferrato dall’Oriente, si sarebbe invece arresa ai culti religiosi orientali. Perciò l’Occidente (che prima di questa svolta epocale non era ancora tale) si costituisce, sì, vincendo contro Cartagine, ma nel contempo mutuando dall’Oriente il culto di una potente divinità frigia.
Sembra pertanto che nella nascita di quell’Occidente, di cui Eliot canta la decadenza (che, si badi bene, è tutt’altra cosa dalla rovina), sia inscritta un’ambivalenza profonda, una sorta di ‘double bind’ o doppio legame, in virtù del quale la dominazione militare esercitata sull’Oriente si intreccia con la penetrazione magico-religiosa di quest’ultimo nell’Occidente. Le manifestazioni culturali dell’anzidetta ambivalenza per la verità non mancano: dal “Divano occidentale-orientale” di Goethe (1819) sino alle poderose opere storiche di Toynbee e al celeberrimo “Tramonto dell’Occidente” di Spengler (19229, per finire con “The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order” di Samuel Huntington (1996), studioso recentemente scomparso, tutti testi coevi allo stesso poemetto di Eliot. Il messaggio che ci viene dalla “Terra desolata” è chiaro e quanto mai attuale: le culture non vanno considerate come blocchi monolitici e reciprocamente impermeabili, esse si mescolano tra di loro e i Romani alla fine riescono a salvarsi non solo perché sono più forti, ma anche perché, pur dotati di maggior forza, sanno accettare e appropriarsi le culture altrui.
Dunque, ciò che deve preoccupare è l’assenza di cultura, che equivale al rifiuto di impegnarsi nel trovare un linguaggio per comunicare con gli altri. Dunque, occorre diffidare di coloro che non vogliono conoscere il proprio passato, che si tratti della battaglia di Milazzo o di qualsiasi altro argomento storico. Dunque, non vi è nulla di più volgare dell’esibizione dell’ignoranza, che sostituisce l’umiltà feconda del ‘so di non sapere’ con la sterile imbecillità del ‘non me ne importa nulla di sapere’, tanto più meritevole di essere condannata quanto più si illude di porre rimedio ad un’identità fragile e malferma scambiando la storia con il mito.

Eros Barone

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