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La regressione linguistica delle nuove generazioni: cause e conseguenze

Bilcare Research
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6 Febbraio 2017

L’allarme sullo stato catastrofico del rapporto tra conoscenza della lingua italiana e nuove generazioni, lanciato da 600 docenti universitari in una lettera aperta indirizzata alle istituzioni, ha giustamente occupato un posto di rilievo nelle prime pagine degli organi di comunicazione del nostro Paese. La questione sollevata tuttavia non è affatto nuova, poiché esiste da alcuni decenni ed è andata progressivamente aggravandosi negli ultimi anni. La realtà era da tempo sotto gli occhi di tutti, a cominciare da istituzioni prestigiose come l’Accademia della Crusca e da studiosi altrettanto prestigiosi come Tullio De Mauro. Alle une e agli altri va forse attribuita qualche responsabilità non solo per la passività e l’acquiescenza dimostrate verso questo preoccupante fenomeno di regressione culturale, ma addirittura per l’ottica ottimistica con cui, in certi momenti, hanno invitato a considerare tale fenomeno. Ricordo ancora uno scritto dello studioso testé citato, dal titolo “Scripta sequentur” (gli scritti seguiranno), in cui veniva tessuto l’elogio del primato del linguaggio orale sul linguaggio scritto come asse di un’educazione linguistica innovativa… Si è trattato, in realtà, di una forma di populismo linguistico che, insieme con la rivalutazione del dialetto, l’abolizione del latino e l’enfasi sproporzionata posta sull’inglese, ha spianato oggettivamente la strada alla deriva localista e neo-primitiva, inficiando una corretta e completa formazione linguistica delle nuove generazioni e determinando le perniciose conseguenze che sono ora oggetto di una denuncia tanto accorata quanto tardiva.

Bisogna invece dare atto al linguista e filosofo Raffaele Simone di aver inquadrato rigorosamente il contesto effettivo all’interno del quale rientra la questione della formazione linguistica delle nuove generazioni in un libro fondamentale del 2000, intitolato “La Terza Fase. Forme di sapere che stiamo perdendo”, in cui sono individuati, descritti e spiegati i nessi tra lingua, apprendimento, conoscenza, tecnologia e società. Può allora essere utile richiamare in succinto l’analisi di Simone, che si incentra sulla descrizione del modo in cui siamo passati dalla Seconda alla Terza Fase della storia della conoscenza e si sofferma soprattutto sulle forme di sapere che stiamo perdendo a causa delle modificazioni, indotte dall’informatica e dalla telematica, di talune strutture della nostra mente e del nostro mondo. Al termine di un ‘excursus’ affascinante (che spazia da Platone ad Aristotele, dai Padri della  Chiesa a Diderot e Condillac, da Lessing a Herder) sulla funzione conoscitiva svolta dai sensi (e, in particolare, dal senso della vista e dal senso dell’udito) nel corso della evoluzione dell’umanità, l’autore individua il ‘turning point’ di tale storia nella diffusione massiccia del libro che, modificando e rendendo più complessa la gerarchia dei sensi, ha dato luogo ad una vera e propria rivoluzione cognitiva con il passaggio dalla Prima Fase (invenzione della scrittura) alla Seconda Fase (invenzione della stampa). Assume così evidenza lo snodo cardanico dell’intera argomentazione svolta da Simone, cioè la tesi della superiorità dell’“intelligenza sequenziale”, richiesta dalla scrittura alfabetica, sull’“intelligenza simultanea”, richiesta dalla visione delle immagini: tesi comprovata sia dalle ricerche scientifiche sulla psicologia cognitiva sia dal ruolo dinamico e produttivo assolto dal primo tipo di intelligenza nel corso della evoluzione culturale e civile dell’umanità (basti pensare al nesso inscindibile che intercorre fra scrittura e lettura o fra Stato e diritto).

Orbene, a questa altezza della storia della cultura e della civiltà umana si è verificato, secondo Simone, il passaggio da uno stadio in cui la conoscenza evoluta si acquisiva soprattutto attraverso il libro e la scrittura (cioè attraverso l’occhio e la visione alfabetica, quindi attraverso l’intelligenza sequenziale) ad uno stadio in cui essa si acquista anche (e, forse, soprattutto) attraverso l’ascolto e la visione non-alfabetica (cioè attraverso il binomio orecchio-occhio, quindi attraverso l’intelligenza simultanea). Un sintomo di questa mutazione epocale può essere ravvisato, secondo l’autore, nella concomitanza tra due fenomeni che hanno dimensioni mondiali: quello del tendenziale arresto del decremento dell’analfabetismo e quello del correlativo aumento, in quantità e qualità, degli stimoli auditivi e visivi legati alla comunicazione e alla diffusione dei più diversi messaggi. Sennonché tale concomitanza chiama in causa la scuola in quanto luogo della ‘riproduzione’ (ossia del trasferimento delle conoscenze presso le nuove generazioni) e punto nevralgico di intersezione dei processi che segnano il passaggio dalla società tradizionale a quella moderna. D’altra parte, per quanto sia vero che il peso della scuola è cambiato e che essa non è il luogo della espansione, della circolazione e della interconnessione, in forme sempre nuove, delle conoscenze, ma è il luogo in cui alcune conoscenze vengono trasmesse e classificate, resta pur sempre vero che le conoscenze offerte dal mondo esterno sono qualitativamente inferiori a quelle scolastiche, poiché sono ‘deboli’, scarsamente codificate e non grammaticalizzate. Sulla base di tale analisi Simone stabilisce una correlazione funzionale tra il calo internazionale non solo del consumo della lettura ma anche della stessa capacità di leggere (la cosiddetta ‘de-alfabetizzazione’) e il passaggio da una modalità di acquisizione della conoscenza fondata sui codici alfabetici ad un’altra modalità di acquisizione della conoscenza fondata sui codici iconici e acustici. L’autore giunge infine a individuare la matrice dei comportamenti comunicativo-espressivi delle giovani generazioni nella dicotomia fra due modelli di uso del linguaggio, quello proposizionale e quello non-proposizionale, e mostra come quest’ultimo sia connesso ad una tradizione filosofico-culturale di marca prettamente irrazionalistica. Pur riconoscendo anche l’esistenza di una corrente non-proposizionale o anti-proposizionale basata sul ricorso all’immediatezza e alla genericità del senso comune, sulla non-referenzialità o scarsa referenzialità della comunicazione quotidiana e sul primato dell’intuizione rispetto alla ragione, Simone ravvisa il nucleo della tradizione che maggiormente contraddistingue la civiltà occidentale nel linguaggio proposizionale. Così, dal riconoscimento del posto centrale che occupa il linguaggio proposizionale nella tradizione dell’Occidente l’autore ricava, quale conseguenza, il prodursi di un radicale conflitto fra la cultura della scuola e la cultura dei giovani.

In conclusione, se vi è, fra i molti interrogativi che il libro di Simone formula o suscita, un interrogativo che ha, in relazione al presente discorso, una rilevanza cruciale, esso è il seguente: saprà la scuola rispondere ai dilemmi e alle alternative, che nascono da tale conflitto, con una sintesi critica e costruttiva che escluda sia l’adeguamento populistico alle tendenze dominanti sia l’arroccamento elitario nella difesa di una cultura nobile ma lontana dall’odierna dialettica sociale? Se si considerano i fatti e le riflessioni sin qui sviluppate, così come i risultati prodotti dalle disastrose politiche scolastiche, di segno populistico e neoliberista, che hanno perseguito in questi decenni tutti i governi che si sono succeduti al dicastero dell’Istruzione, temo che la risposta non possa che essere negativa. La sfida posta dalla “Terza Fase” è stata perduta, ed è stata perduta perché in questo Paese sono completamente mancati, a parte isolate e non influenti eccezioni, un ceto politico ed un ceto intellettuale animati dalla consapevolezza che i problemi linguistici sono, nella loro essenza, problemi che coinvolgono il ‘logos’, il ‘pathos’ e l’‘ethos’ (vale a dire il ragionamento, le emozioni e la moralità), che è quanto dire la formazione dell’identità nazionale e del senso civico. Del pari, si è rinunciato ad esigere dai nostri ragazzi, sul piano dell’impegno nello studio e nella conoscenza, molto di più di quello che è stato loro richiesto, abbassando sempre di più i livelli, i contenuti e la qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento. Non è difficile quindi prevedere che nei prossimi decenni, che saranno segnati da enormi tempeste politiche, sociali e militari, e dalla poderosa avanzata di nuove potenze dotate di sistemi educativi di alto livello, ci toccherà pagare un conto assai salato, come Stato nazionale, per la regressione linguistica delle nuove generazioni. Basti pensare che le misure indicate dai 600 docenti universitari nel documento da cui ho preso le mosse (fra le altre cose, dettato ortografico, riassunto, comprensione del testo, conoscenza del lessico, analisi grammaticale e scrittura a mano, nonché verifiche nazionali periodiche di queste abilità durante gli otto anni del primo ciclo scolastico) rientrano tutte in quello che era il funzionamento ordinario della scuola dell’obbligo, prima che esso fosse investito, per un verso, dalle mutazioni epocali di cui si è fatto menzione, e mutilato e distorto, per un altro verso, dalle sciagurate politiche scolastiche di questi ultimi decenni.

Eros Barone

 

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