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Nel cuore della cartiera, tra bellezze antiche e chi gioca alla guerra

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10 Aprile 2007

Caro Direttore,

leggendo del rave nella Cartiera di Cairate, confesso che ho avuto un tuffo al cuore.
Sì perchè non più di una ventina di giorni fa mi sono introdotta anch’io, munita di macchina fotografica a caccia d’immagini, alla Cartiera Vita Mayer di Cairate.
Nessun cartello segnalava divieti d’accesso e nessun cancello mi sbarrava l’entrata, anzi era esattamente il contrario! Così, senza alcuna difficoltà e passando per gli ingressi principali spalancati, ho colto l’occasione per un’esplorazione in quello che io ritengo essere vera e propria archeologia industriale.

Lì il tempo pare si sia fermato, e la devastazione, opera per lo più del tempo e non dei vandali, ha aspetti di struggente bellezza.
Si trovano ancora tracce di cicli produttivi ormai dimenticati: nella Cartiera ci sono grandi vasche con enormi pale in cui forse veniva lavorata la cellulosa per farne carta, quadri elettrici antichi e montacarichi arrugginiti. Guanti da lavoro e scarpe abbandonati, cinghie, manometri e corde. Il tutto sotto una coltre di polvere che sembra fango, tra ragnatele, ruggine e infiorescenze di muffa a creare i colori dell’abbandono. Unica forma di vita che amalgama le cose e il tempo, è la vegetazione prorompente. Esce infatti dai tombini e dalle crepe dei muri o si arrampica dalle finestre, con commovente tenacia.
Sempre alla Cartiera ho trovato libri paga e documenti vecchissimi di lotte sindacali per salvare la fabbrica (memorabile il ciclostilato in cui mi sono imbattuta in un ufficio -non una fotocopia ma proprio un ciclostilato- datato 1973, con cui il sindacato chiedeva alla dirigenza della fabbrica un incontro per valutare l’ipotesi di costituire una cooperativa di lavoratori per salvare la Cartiera). Ho trovato anche alcuni camici di operai, appesi negli spogliatoi, e toccarli è stato molto strano: il tempo ha reso infatti la stoffa più spessa e rigida ma incredibilmente fragile.

Poi ho trovato degli avvisi, forse degli anni Cinquanta, alle pareti dei capannoni: una strana forma di prevenzione degli infortuni sul lavoro, dove si intima al lavoratore di fare attenzione a non farsi male. La parola “colpa” su di essi pesava come un macigno, a testimoniare una diversa concezione del lavoro in fabbrica.
La mia visita si è svolta in un malinconico silenzio rotto solo dal click della macchina fotografica a documetare il senso di sacralità che mi stava ispirando quel luogo, ricco di storia.

Mi sono accorta però di altre presenze oltre alla mia. Strani personaggi vengono infatti abitualmente in Cartiera a giocare a farsi la guerra, vestiti con mimentiche anfibi caschi ed occhiali. Imbracciano fucili che sparano pallini bianchi. Tutti i capannoni sono invasi da questi proiettili giocattolo, e c’è da far attenzione a non farsi scambiare per qualche obiettivo sensibile, perchè di manichini/bersagli ne ho trovati diversi, sparsi per le varie stanze.
Pensare a come ci si possa divertirte in questo modo tra i muri di una fabbrica abbandonata mi aveva già turbato. E ancor più mi turba oggi il pensare alla profanazione da parte di ragazzotti sballati, decibel e rifiuti, di un luogo che dovrebbe rappresentare la nostra storia. Credo infatti che la Cartiera come tante altre aree dismesse presenti in provincia, sia testimonianza dell’origine della ricchezza industriale del nostro territorio e in caso di mancata valorizzazione da parte dei titolari delle aree in questione, spero almeno che venga rispettata dalle persone che si introducono in questa sorta di museo.

Ora c’è solo da sperare che il rave, non serva da pretesto per una riqualificazione dell’area che cancelli un altro pezzetto della nostra memeoria.
Grazie, caro Direttore per l’attenzione che vorrai dare alla mia malinconia e a qualche mio scatto sulla Cartiera Vita Mayer.

Lettera firmata

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