Pd-Obama: parliamone
13 Novembre 2008
Caro direttore,
anche senza essere la realtà, questa rubrica a volte è molto vicino a ciò che passa “fuori”, per le strade. E’ il caso della questione PD-vittoria di Obama che appassiona tante persone, molto più di quel che si crede.
Lasciando stare un momento le battutacce un po’ acide da destra e la provocazione semiserie a sinistra, per quel che sento tra i miei amici di questa parte, la vittoria di Obama ha fatto bene al morale di molti. Non solo per la SPERANZA epocale, invero tipicamente americana, di cui sé molto parlato e che, essendo speranza, attende la prova dei fatti; ma pure per la CERTEZZA che, almeno, s’è chiusa la tragica, disastrosa pagina bushiana.
A me pare anche che quella di presentare Veltroni e il PD intenti solo a prendersi a scrocco un po’ della vittoria di Obama, sia una caricatura polemica che non coglie il dato reale, insieme più semplice e più complesso.
Più semplice, nel senso che è tradizionale l’affinità elettiva tra la sinistra europea e lo schieramento democratico&liberal americano (come dall’altra parte quella tra repubblicani&necons e destra). Di qui l’esultanza per Obama.
Più complessa, perché si sa che i successi elettorali non sono così facilmente esportabili, nè i programmi vincenti in una situazione, lo sono per forza in un’altra. Tanto più se di mezzo, tra il dire e il fare, non c’è il mare ma… l’oceano.
Però un esame meno superficiale si può fare, per ritrovare somiglianze di temi e di proposte tra i Democrats di Hillary e Barak e il nostro PD.
Faccio un elenco parziale: la critica dell’avventura irachena, una visione meno unilaterale del governo mondiale, il radicale superamento dei pregiudizi razziali, una politica decisa a favore delle protezioni sociali (per prima la sanità pubblica), il rifiuto dell’uso strumentale di questioni eticamente sensibili: eutanasia, aborto, matrimoni gay, questioni diverse usate, in una rappresentazione fosca del nostro futuro, per dividere e turbare l’opinione pubblica già disorientata dalla globalizzazione. Su questi ed altri temi, è difficile negare un’affinità ideale e programmatica tra democratici italiani e americani.
Dove sta invece la diversità, e la difficoltà di associare il PD al partito di Obama?
La più evidente discende anche da differente sistema politico: è la distanza tra i consensi del PD e quelli dell’asinello americano: qui un elettore su tre. Là uno su due. Basterebbe questo a dare ragione alla diffusa retorica antiveltroniana e non consola vedere che nemmeno i consenso del PdL sono paragonabili a quelli dell’elefantino di Mac Cain.
Non consola e non basta a chi ha a cuore la battaglia della sinistra democratica e non si rassegna ad un’Italia governata da un’alleanza pasticciata tra il partito della paura e pezzi del vecchio blocco di potere formatosi ai tempi della P2 e del CAF.
C’è un problema del PD, che è un problema molto italiano e molto concreto: da ormai 20 anni i massimi dirigenti sono sempre gli stessi e un vero ricambio non appare immediato. Eppure il Pd era nato anche per questo, per creare le pre-condizioni di questo cambiamento: a che punto siamo?
Una parte del progetto è stata avviata, al prezzo della caduta del governo Prodi. Un sistema di alleanze impraticabile, che si reggeva su garanzie e ricatti tra gruppi dirigenti autoreferenziali più che su un progetto di futuro, è andato in soffitta.
Un altro passo avanti è stata la ri-unione tra diverse anime riformiste, divise da una storia tutta italiana che risale fino al medioevo dei guelfi e dei ghibellini. Quanto sia importante unire lo si vede, per inverso, dalla drammatica crisi che proprio in questi giorni sta dividendo i sindacati, nella quale non a caso il Premier gioca un ruolo molto attivo e interessato.
Cosa manca ancora? Direi proprio quello che ci ha messo Obama: la creazione di una NUOVA leadership, forgiatasi nel vivo di una battaglia in cui la storia personale dell’uomo è diventata la sostanza del messaggio politico, la coerenza la sua forza imbattibile.
Se è di questo che serve, non è però che ci arriviamo con la pratica nostrana di criticare tutto e tutti, chi rema contro e chi continua a tirare il carretto con costanza.
Né avrebbe alcun senso pretendere un azzeramento dei gruppi dirigenti a tutti i livelli. Nemmeno Obama ha fatto tanto, avvalendosi piuttosto di ex ministri di Clinton, del vecchio Kerry e persino di Jassie Jeckson (quelli che da noi chiamiamo i “trombati”, la fanno onestamente la loro parte).
In conclusione, credo che il Pd abbia tutto il diritto di ricavare dal voto americano una iniezione di fiducia, a patto di accellerare la costruzione di quel solido profilo programmatico, indispensabile perché, chi vorrà provare a lanciare una sfida più innovativa per la sua guida, trovi un terreno pronto per misurasi con i metodi della politica.
Sarà una sfida utile se avverrà sui problemi dell’Italia, non del partito. Una sfida tra chi dimostra di avere più idee, più coraggio e più credibilità nel confronto con la destra.
Queste le riflessioni di uno “di parte”, spero non riservate solo alla propria parte. In ogni caso grazie per l’attenzione.
Cordiali saluti
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