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Pensano agli immigrati, ma si dimenticano degli italiani

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PENSANO AGLI IMMIGRATI, MA SI DIMENTICANO DEGLI ITALIANI
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10 Dicembre 2016

Quello italiano è stato per decenni un popolo di emigranti. I nostri nonni, con la valigia di cartone legata con lo spago in mano e un groppo in gola, approdavano in paesi dove erano spesso sfruttati e mal tollerati. All’ingresso dei bar della Svizzera interna si potevano leggere cartelli con scritto “vietato l’ingresso ai cani e agli italiani”.

Il clima sociale in quei paesi era quindi simile a quello che si avverte oggi in Italia. Vi è però una differenza sostanziale: gli italiani andavano in paesi dove c’era bisogno di mano d’opera per sostenere un’economia in forte crescita. Paesi dove non esisteva la disoccupazione e dove il livello di benessere andava aumentando, anche grazie agli immigrati.

La situazione dell’Italia di oggi è, invece, completamente diversa. Ci troviamo in piena stagnazione economica con un tasso di disoccupazione, soprattutto giovanile, mai visto in passato e un livello di povertà in forte aumento (siamo giunti al 20 % della popolazione). Secondo i dati dell’ISTAT abbiamo circa tre milioni di disoccupati a fronte dei quali registriamo oltre 2 milioni di lavoratori stranieri stabilmente occupati in tutti i settori della nostra economia a cui si aggiungono le centinaia di migliaia di extracomunitari che lavorano in nero e in varie forme di precariato. Grosso modo i due valori, immigrati occupati e italiani disoccupati, si equivalgono.

Di conseguenza, stando ai numeri, se non ci fossero gli stranieri in Italia non ci sarebbe disoccupazione e le condizioni di lavoro sarebbero sicuramente migliori.
Come si spiega questa situazione? Con la solita storiella dei lavori umili rifiutati dagli italiani e dei giovani che non vogliono sporcarsi le mani?
I fannulloni e i bamboccioni sono sempre esistiti, solo che oggi sono enfatizzati per giustificare il ricorso agli immigrati, gli unici che accettano di essere sfruttati e di lavorare in condizioni indegne per un paese civile. Vediamo qualche esempio.

Nei cantieri edili del nord (ma nel resto d’Italia la situazione non è molto diversa) in passato si sentivano parlare i vari dialetti meridionali e il bergamasco, oggi è una babele di lingue …e i nostri manovali e muratori che fino a pochi decenni fa lavoravano, e bene, in qualunque cantiere che fine hanno fatto? Sono diventati tutti ingegneri o più facilmente si rabbattano o peggio ancora hanno allungato la lista dei disoccupati?

Al sud, dove la disoccupazione è cronica, la raccolta del pomodoro e degli agrumi per le grosse industrie alimentari (che fanno finta di nulla) l’hanno sempre fatta i meridionali, oggi disoccupati. Scalzati dagli extracomunitari che lavorano 10/12 ore al giorno per poche decine di euro e dormendo sotto le piante. Inoltre i cosiddetti caporali, i reclutatori di mano d’opera, sono anche loro extracomunitari e fanno pure i razzisti ingaggiando solo i loro connazionali.
Nei cantieri navali di Monfalcone dove si costruiscono i grandi transatlantici che solcano gli oceani per i ricchi vacanzieri, il 70% degli operai è costituito da stranieri. La Fincantieri, proprietaria dello stabilimento, per non sporcarsi le mani, demanda alle cooperative di lavoro l’assunzione del personale. Queste cooperative, essendo in concorrenza tra loro, per aggiudicarsi l’appalto, fanno a gara a chi abbassa di più la retribuzione e le condizioni di lavoro degli operai. Possono farlo grazie alla legge sul lavoro interinale (introdotta da Prodi e perfezionata da Berlusconi) che consente loro di inquadrare i lavoratori come soci e non come dipendenti aggirando, in questo modo, le tutele sindacali e i minimi salariali.

Il risultato è scontato: ad accettare uno stipendio da fame per un lavoro precario e massacrante sono solo gli immigrati, per la gioia della società che vede ridursi i costi e aumentare gli utili. Da notare che Fincantieri è una azienda statale, quindi di proprietà del popolo italiano che, come si direbbe a Napoli, si ritrova, in questo caso, “cornuto e mazziato”. La stessa situazione la ritroviamo negli ospedali con gli infermieri, e in altre realtà pubbliche e sta diventando prassi per le aziende private.
Se da un lato dobbiamo comprendere le ragioni degli immigrati, che ci ricordano quelle dei nostri emigranti dei primi anni del novecento, dall’altro non dobbiamo chiudiamo gli occhi davanti ai nostri diseredati. E’ notizia di questi giorni di un giovane italiano che si è suicidato dopo aver ucciso moglie e figlioletto a causa delle difficoltà economiche in cui versava dopo aver perso il lavoro, tragedia che si aggiunge alla lunga lista di piccoli imprenditori in rovina che si sono tolti la vita. Se queste persone arrivano al gesto estremo è perché si sentono totalmente abbandonati a se stessi da uno stato che ha tolto loro ogni speranza. Uno stato che pensa più agli immigrati e ai profughi che agli italiani in difficoltà o che, nella migliore delle ipotesi per un mal compreso senso di uguaglianza (lascito marxista ripreso dal nuovo corso della Chiesa), li pone sullo stesso piano.

Una madre invece prima aiuta i sui figli e poi – se ne ha la possibilità – aiuta i figli degli altri. Ed è quello che dovrebbe fare uno stato a cui sta a cuore il benessere del suo popolo. Invece i nostri politici per farsi belli agli occhi del mondo e per assecondare le aberranti logiche del cosiddetto mercato globalizzato, hanno creato le condizioni di una guerra tra poveri.
Ci fosse un governo veramente nazionale e vicino al suo popolo, per ristabilire un minimo di giustizia sociale, introdurrebbe nella prossima manovra finanziaria una semplice norma: incentivi a chi assume italiani e aumento dei contributi per sostenere i costi dell’accoglienza a chi assume stranieri. Accompagnata dall’abolizione di tutte le cooperative di lavoro, vere e proprie agenzie legalizzate di sfruttamento delle braccia.
Pensate che chiunque andrà al prossimo governo abbia gli attributi per farlo?

Gianfredo Ruggiero, presidente Circolo Culturale Excalibur

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