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Strauss-Kahn, don Seppia e i parricidi per dimenticanza

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1 Giugno 2011

Che cosa accomuna (stando almeno alla rappresentazione mediatico-giudiziaria
di questi episodi) le vicende di Strauss-Kahn che violenta una cameriera di colore,
di don Seppia che abusa dei fanciulli e dei padri di Teramo e di Perugia che
abbandonano i figlioletti nell’automobile provocandone la morte?
 
Si tratta, infatti, di tre persone il cui comportamento, se appare per un verso
talmente anomalo da apparire quasi ‘mostruoso’, sembra per un altro verso non
addebitabile a circostanze puramente occasionali e, scontata l’ovvia condanna
morale, fa sorgere un problema di interpretazione sul piano della decodificazione
psico-sociologica. Del resto, non è difficile, ad un primo approccio, incasellare il
primo nella categoria sempre più numerosa degli uomini di potere affetti da satiriasi;
il secondo in quella dei preti pedofili (anche se sarebbe corretto definirli, in modo
più appropriato, pederasti); gli ultimi due in quella, che ormai annovera casi che
tendono a ripetersi, dei parricidi più o meno involontari. Questa classificazione non
dà tuttavia risposta alle domande che è spontaneo porsi: perché ad un uomo potente,
colto e affascinante viene in mente di violentare una cameriera africana in una camera
d’albergo? perché a un sacerdote può saltare in mente di chiedere a un suo amico di
procacciargli dei bambini figli di madri tossicomani e bisognose? e come fa un padre
ad andare al lavoro lasciando la figlia di ventidue mesi in automobile sotto il sole per
ore e ore?
 
Per quanto si rifletta sui soggetti e sui loro moventi, la reazione che si prova è
uno sconcerto misto di rabbia e, insieme, di compassione: uno sconcerto che, nel
momento stesso in cui ci fa apparire inconcepibili quei comportamenti e suscita in
noi aspri interrogativi sul funzionamento delle istituzioni coinvolte (il Fmi, la Chiesa
e la paternità), ci spinge a relegare nell’ombra dell’assurdo non tanto quegli episodi
(se si sono verificati vi è una ragione sufficiente che li ha determinati) quanto la
rete dei ruoli che li ha prodotti e che essi hanno lacerato. Insomma, possono bastare
il riconoscimento della colpa, l’espulsione ignominiosa dal corpo sociale e “che
la giustizia segua il suo corso” per metterci l’anima in pace, rivolgere la nostra
attenzione alle consuete faccende e liberarci dall’oscura percezione che, in realtà,
eventi simili accadranno ancora, lasciandoci una volta di più attoniti e confusi?
 
La decodificazione psico-sociologica di tali eventi ci pone, sia pure da versanti
diversi, di fronte alla crisi del ‘principio maschile’ in una società fortemente
femminilizzata (ecco una possibile interpretazione degli episodi in parola, che infatti
è stata richiamata), ma anche, più semplicemente, di fronte alla mancanza di rispetto
per la persona umana che nasce dallo svuotamento etico-sociale dei ruoli. Occorre
prendere coscienza, da questo punto di vista, che non vi è ruolo sociale, da quelli di
più alta responsabilità a quelli più diffusi e comuni, che non richieda un profondo
 
rispetto per la persona umana congiunto a un preciso senso del limite, poiché, come
ci avverte la celebre massima kantiana, non si deve considerare gli altri soltanto
come mezzi ma anche come fini. È pur vero che ciò che noi siamo è ciò che noi
siamo riusciti a fare di ciò che gli altri hanno fatto di noi stessi, ed è dunque lecito
chiedersi fino a che punto Strauss-Kahn, don Seppia e i padri ‘distratti’ siano riusciti
in questo faticoso lavoro per “essere sé stessi” e fino a che punto essi siano adeguati
al ruolo che ricoprono. Riflettere, allora, sulla complessità del rapporto tra gli uomini,
i loro ruoli e l’ambiente in cui si muovono, senza cercare comode scorciatoie nel
determinismo sociologico così come in un troppo facile moralismo, è il compito non
lieve che compete a chiunque sia consapevole che “essere uomini significa sempre
essere un po’ più che uomini e un po’ meno che uomini”.
 
Eros Barone

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