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Un bilancio dopo la sinistra

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23 Maggio 2013

Che il sintagma di “rivoluzione civile”, scelto nelle passate elezioni quale simbolo elettorale di un eclettico aggregato della cosiddetta sinistra radicale, contenesse un equivoco, era evidente sin dall’inizio, poiché chi conosce l’abicì del marxismo sa bene che è la rivoluzione sociale che determina la rivoluzione civile (e non viceversa). Invertendo l’ordine dei fattori, in questo caso il prodotto cambia. Del resto, una volta commesso l’errore nella grammatica concettuale della proposta politica, era inevitabile che si verificasse tutto ciò che ne è conseguito: da un risultato elettorale disastroso al totale ‘silenzio dei comunisti’ nelle istituzioni e, cosa questa gravissima, nella società. Quando non esiste più un impianto teorico capace di spiegare la struttura del mondo e non è più chiaro quale sia l’origine delle contraddizioni, diviene anche impossibile orientare correttamente ed efficacemente la prassi politica e si apre uno spazio smisurato per la demagogia di tipo poujadista e per le contestazioni del sistema basate sul binomio di un’antipolitica dal volto feroce e di una sostanziale subalternità ai princìpi e alla logica degli esistenti rapporti sociali. La ‘rivoluzione civile’ organicamente integrata dentro tali rapporti era quindi destinata ad essere il monopolio di Grillo, che ha svolto conseguentemente il ruolo di ‘grande attrattore’ di un voto di protesta che ha accomunato, come sempre accade con i movimenti di carattere interclassista e qualunquista, sfruttati e sfruttatori, oppressi ed oppressori: il piccolo imprenditore furioso e il disoccupato disperato, il precario che vive sul filo del rasoio e lo studente internauta senza prospettive di inserimento sociale, l’operaio esasperato dal continuo peggioramento delle condizioni di lavoro e il piccolo borghese che odia la ‘casta’ dei politici… La sinistra, al contrario, è apparsa interna al blocco reazionario ed imperialista dell’Unione Europea, mentre la contestazione delle politiche dell’austerità, in assenza di un’alternativa netta e decisa, ha finito col portare acqua al mulino dell’antieuropeismo, vuoi nella versione reazionaria di Berlusconi vuoi in quella ancìpite di Grillo. Sennonché, essendo l’Europa dominata da un blocco neoliberista, la difesa dell’euro è apparsa come la difesa, puramente e semplicemente, di questa Europa. Anche in questo caso, la sinistra radicale ha sommato ad un ‘deficit’ di pragmatismo una carenza di strategia.

   È paradossale, peraltro, che tutto ciò avvenga in un periodo in cui il capitalismo e le classi dominanti borghesi si dibattono in una profonda crisi di egemonia, mentre la potenziale rivolta viene polarizzata da Grillo nella forma di un rito plebiscitario attraverso cui lo stregone restituisce ad un popolo che sa di non contare nulla l’illusione di una partecipazione di massa alla politica. Grillo risponde pertanto alla crisi della democrazia borghese dimostrando che si può ribaltare il tavolo con un urlo e, nel contempo, spianare la strada ad un inedito fascismo post-moderno fondato sul ‘popolo-nazione’ che abolisce i corpi sociali intermedi (partiti e sindacati) e si fa Stato sotto un simulacro di democrazia costruito ed eterodiretto da un ‘dux’ informatico. Si assiste così ad una crisi della democrazia che retroagisce sulla democrazia stessa, non solo sulla sua espressione degenerata, mentre il rapporto con un vasto corpo sociale proletario e proletarizzato passa nelle mani di un gruppo di avventurieri provenienti chi dal mondo dello spettacolo comico e chi dal mondo dell’informatica commerciale. Perfino i movimenti antiliberisti, come quello per l’acqua pubblica e quello contro il Tav, hanno scelto in maggioranza, confermando la fragilità e la subalternità dei loro livelli di coscienza, di orientare il loro sbocco politico-elettorale verso il Movimento 5 Stelle. A ciò si aggiunge l’impressionante implosione del sindacato, che ha neutralizzato il conflitto di classe e lo ha espunto quasi completamente dal suo lessico.

   La grande questione consiste allora, alla luce di questo ‘bilancio dopo la sinistra’, nel capire che cosa sia oggi un partito comunista, quale sia la composizione tecnica, sociale e politica del suo insediamento, dei suoi iscritti, delle sue avanguardie di lotta e dei suoi gruppi dirigenti. Una questione che va posta e risolta sapendo che coloro che si dicono comunisti, quale che sia la tendenza che esprimono e la storia da cui provengono, di fatto non organizzano le masse lavoratrici e non influiscono, neanche minimamente, sul loro orientamento politico. L’abbandono esplicito, così come l’evocazione rituale, degli strumenti teorici, culturali ed organizzativi (dall’analisi marxista al partito di quadri e al socialismo scientifico) che, unici, permettono di esercitare, o di aspirare ad esercitare, un’egemonia in campo sociale, definiscono e spiegano, in larga misura, non solo l’attuale ‘silenzio dei comunisti’, ma anche la deriva populistica e simil-peronista di quel mondo di ceti proletari e proletarizzati che, privi di adeguata tutela economica e di salda direzione politica, sono oggi abbagliati dal “sole nero degli oppressi”, esattamente come negli anni Venti e Trenta del secolo scorso. La storia si ripete, anche se non negli stessi termini e con gli stessi soggetti. Come dicono i francesi, “plus ça change et plus c’est la même chose” (più le cose cambiano e più rimangono le stesse).

Enea Bontempi

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