Il giorno della Repubblica

La storia del giorno che creato l'Italia democratica nelle parole di Antonio Maria Orecchia, Docente di Storia contemporanea Università degli Studi dell’Insubria

Pochi applausi accolsero l’ingresso di re Umberto nel seggio di via Lovanio, a Roma, la mattina del 2 giugno 1946. Dopo oltre vent’anni di silenzi e di sussurri, e venti mesi di guerra civile, 24.947.187 italiani – tutto il popolo, comprese per la prima volta anche 12.998.131 donne – erano chiamati a scegliere la forma istituzionale del paese e ad eleggere l’Assemblea costituente.

L’Italia che decideva il proprio futuro era un paese sconfitto, devastato e impoverito dalla guerra. Aveva perso circa 450.000 tra militari e civili, altri 650.000, ancora in mano agli stranieri, stavano lentamente rimpatriando. Il reddito delle famiglie era crollato mentre l’odiata borsa nera prosperava. Nel territorio stazionavano ancora le truppe angloamericane, il trattato di pace non era stato firmato e sul confine orientale si temeva, a ragione, per il futuro. Fosco appariva anche il quadro internazionale. I rapporti tra le due superpotenze andavano deteriorandosi e sin dal 5 marzo da Fulton (Missouri), Winston Churchill aveva denunciato la «cortina di ferro» scesa sull’Europa. La Grande Alleanza che aveva sconfitto il nazifascismo era a pezzi, si preannunciava l’età della guerra fredda e l’incubo del conflitto atomico. L’Italia, dopo Yalta, era al di qua della cortina, ma – aveva sottolineato lo stesso Churchill – il suo futuro “è ancora in bilico”.

Eppure, in quel 1946, fame, povertà e speranze di lavoro si mischiavano ad una straordinaria volontà di chiudere il capitolo della guerra al più presto, in uno strano miscuglio di gioia di vivere e di paure quotidiane. Giovanni Guareschi sul «Candido» pubblicava le prime storie di don Camillo e Peppone; entravano in commercio la «Vespa» e la «Lambretta», a Maranello Enzo Ferrari fondava l’omonima casa automobilistica; dal 5 maggio circolavano le schedine della Sisal, che diventerà poi Totocalcio. E ancora: veniva organizzato il primo concorso per l’elezione di «Miss Italia» e si scoprivano le novità d’oltreoceano, il jazz, lo swing, il boogie-woogie, che il fascismo aveva vietato. Ma, sopratutto, il Paese conosceva un acceso dibattito politico che per molti, i più giovani, era una novità assoluta: ogni giorno si pubblicavano nuove testate, molte destinate ad una vita effimera, che in quei momenti eccezionali, dove la carta era un bene prezioso, riuscivano a raggiungere addirittura le quattro pagine.

Questo lo scenario al momento delle grandi scelte e, prima fra tutte, il ritorno ad un sistema democratico. La campagna elettorale fu serrata ed emotiva: le sedi dei partiti e le piazze si riempirono di gente, per le trasmissioni radiofoniche il governo – anticipando così un tema ancora attuale – stabilì regole precise e suddivise gli spazi per i monarchici, per i repubblicani, e per i diversi partiti. Il colpo di scena lo regalò Vittorio Emanuele III, abdicando in favore di suo figlio Umberto solo 23 giorni prima del referendum. Era chiaro il tentativo della monarchia di proporre una figura che non fosse compromessa con il fascismo e con la vergognosa fuga dell’8 settembre.

Arrivò così il 2 giugno. Sulla scheda elettorale si fronteggiavano il tradizionale stemma sabaudo e l’immagine dell’Italia turrita. Votò quasi il 90% degli elettori e la  repubblica ottenne il 54,3%  e 12.718.641 preferenze; quelle per la monarchia furono 10.718.502. Una vittoria non schiacciante, ma netta: anche sommando le schede nulle e bianche – da qui le accuse di brogli e i ricorsi – la repubblica raggiungeva la maggioranza assoluta. Ma il voto certificò – altra questione assai attuale – la vera spaccatura del paese. Emersero due Italie: il nord, che aveva conosciuto l’occupazione tedesca e la resistenza, votò in massa per la repubblica; e il Mezzogiorno, dove la monarchia conquistò oltre il 60%. Il 13 giugno Umberto II, re per un mese, lasciò l’Italia dall’aeroporto di Ciampino.

Il 2 giugno: una svolta storica. Nasceva la «Repubblica dei partiti», con tutti i suoi enormi problemi economici, sociali e politici. E oggi si può sostenere – come gran parte della storiografia ha evidenziato – che sia nata con un certo impaccio e in un clima di «disincanto», dovuto forse anche al fatto che nella nuova società di massa la classe dirigente – da Alcide De Gasperi a Palmiro Togliatti, da Pietro Nenni a Luigi Einaudi – era espressione di uno stile di vita sobrio e umile, distante da ogni forma di esibizionismo, e per questo in verità elegante, raffinata, culturalmente adeguata e al contempo consapevole e pragmatica. Una classe dirigente che radicò il concetto di democrazia in tutti gli strati della popolazione e portò l’Italia al boom economico e al vero benessere, ma che in quel clima, in cui era necessario cementare il vincolo tra cittadini e istituzioni democratiche, curiosamente non formalizzò mai, con un decreto, una legge, una circolare, un comunicato stampa, che il Canto degli italiani, l’Inno di Mameli, divenisse l’Inno nazionale.

Con l’elezione della Costituente erano intanto emersi i rapporti di forza tra le diverse anime politiche. La Dc, che si preparava a diventare la diga dell’anticomunismo, risultò il partito più forte con il 35,2% dei voti, contro il 20,7% del Psiup e il 18,9 del Pci. I tre partiti di massa, protagonisti della nuova stagione, insieme raggiungevano circa i ¾ dell’elettorato, e da tali contributi culturali e sollecitazioni politiche scaturì la nuova Costituzione repubblicana, che entrò in vigore il 1° gennaio 1948. Un testo che aveva una forte matrice antifascista ed era espressione di un nobile compromesso tra i principi generali del liberalismo democratico e le forti istanze sociali avanzate dai partiti di sinistra e dalla Democrazia cristiana. I gruppi politici di estrazione liberale, egemoni sino alla grande guerra, rimasero sotto il 10 %. Si chiudeva la tradizione che aveva guidato lo Stato liberale fino all’avvento del fascismo.

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Pubblicato il 01 Giugno 2006
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