Res nullius

Un conoscente studente di legge (è storia di tanti anni fa, e non ricordo più chi fosse, ma ricordo l’aneddoto) mi raccontava di un suo esame in cui il professore con sussiegosa bonomia gli illustrava una situazione: un cignale (usava il vezzo della gn, che rende il nome cinghiale più accademico e letterario) era capitato nel paese sul sagrato della chiesa, inseguito da un contadino a cui aveva causato danni. La guardia municipale cercava di immobilizzarlo, il prete guardava sgomento, alcuni paesani, appostati dietro un muretto, commentavano incuriositi. Domanda: di chi era il cignale? Del prete sul cui sagrato la bestia si trovava, del contadino che lo aveva inseguito, del municipio, della guardia? Dopo tormentata meditazione lo studente, fors’anche per una componente di simpatia religiosa, azzardò: “Della chiesa:” “No – contestò il professore – è res nullius”. Lo studente, nel raccontarmi la storia, ancora se la prendeva con l’animale ed inveiva: “Quel maledettissimo cignale, proprio sul sagrato doveva andare! Ma non poteva starsene nei boschi, e non farsi vedere, invece di manifestarsi res nullius?”

Res nullius, proprietà di nessuno. Il concetto deriva dal diritto romano, è quindi di molti anni fa, e si applicava a oggetti privi di diritti (cose, animali o anche schiavi, ma non a cittadini soggetti di diritto) che non erano ancora la proprietà di alcuno. Le leggi sono di successo quando interpretano il comune sentire, e il concetto di res nullius è rimasto radicato nella mentalità dei cittadini e ancor’oggi raramente è sostituito dal concetto della proprietà comune, che come tale va rispettata, salvaguardata, conservata.

Se nessuno appare legittimante proprietario di qualcosa di uso gratuito e comune, come l’aria, una strada, un fiume, la bellezza di un paesaggio, la pace di un luogo silenzioso, allora ognuno pensa di poterne fare quello che vuole senza rendere conto a nessuno, inquinando, sporcando, abbrutendo, frastornando, e questo magari non per cattiveria o imbecillità, ma perché non ci pensa, tanto è cosa di nessuno.

Negli anni novanta si cominciò a congegnare delle cosiddette tasse ambientali, che discendevano dal concetto che chi inquina deve pagare, rendendo così interni al processo produttivo i costi esterni che gravavano sulla collettività senza che venissero evidenziati. Attività produttive che danneggiano l’ambiente sono inopportune e si possono proibire; oppure, rispettando la libertà di iniziativa economica, le si può rendere meno economicamente vantaggiose, appunto gravandole di una tassa. Questo pone poi dei problemi di concorrenza internazionale: vi sono paesi dove non esiste normativa di protezione ambientale, e industrie inquinanti possono produrre a costi inferiori di quelle che devono sottostare a norme ambientali. Ma, sempre nel campo della imposizione, si possono applicare in simili casi dazi ambientali selettivi alla importazione, almeno da parte di paesi responsabili.

Una efficace riforma fiscale ecologica deve avere due caratteristiche: una graduale introduzione e una “neutralità fiscale”. La gradualità è indispensabile perché il sistema economico di produzione e di consumo si adegui ad una nuova realtà di consapevolezza ambientale; la neutralità significa che la pressione fiscale complessiva non debba essere aumentata bensì che la nuova tassa sostituisca altra con effetti positivi, e in questo contesto in Europa viene normalmente considerata una riduzione delle imposte sul fattore lavoro. A proposito di “cuneo fiscale” che la destra e la sinistra di casa nostra hanno riconosciuto debba essere ridotto! Le tasse ambientali darebbero un cosiddetto “doppio dividendo”: esse infatti, oltre a fornire risorse allo Stato per opportuni investimenti o servizi, influiscono sullo stile di vita e dell’economia secondo schemi virtuosi, scoraggiando sia la produzione e l’impiego di sostanze sia i comportamenti dannosi alla collettività.

E infine è indispensabile che tutti questi argomenti, i motivi ispiratori di questa politica fiscale tanto importante per la vita associata, siano ripetutamente, efficacemente, esaurientemente portati a conoscenza dei cittadini. Perché, alla fine, senza la loro consapevole partecipazione nulla può o deve essere fatto, sia pure nel loro interesse. E mi viene da pensare alla nostra costituzione le cui modifiche, discusse e concordate da un gruppetto di politici di parte riuniti per una diecina di giorni in una baita di montagna l’estate scorsa, dovremmo domani accettare o respingere.

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Pubblicato il 24 Giugno 2006
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