Paolo Conte, il Ratafià e la grandezza del pudore

Duecento persone alla "prima" di Amor di Libro: un incontro - chiacchierata con il grande chansonnier e scrittore, che ha confessato anche la sua passione per Piero Chiara

paolo conte amor di libro 2007

“Ma, senta, di cosa sa il ratafià?” chiede una persona dal fondo.
“Sa di ciliegia” spiega senza scomporsi il cantautore – avvocato – poeta al fan che evidentemente si arrovellava su una sua canzone. E poi, dopo qualche secondo di silenzio, come se si rimasticasse in bocca le parole appena sentite: “Questa sì che è una domanda seria”.
Il Paolo Conte che chiacchiera con i varesini in un caldo sabato di maggio bada alle cose importanti, ma importanti davvero: i sapori, i pudori, le piccole cose della vita che per essere dette devono diventare sogni esotici. E per dirlo, in un incontro affollatissimo che ha visto assieparsi nel tendone di Amor di Libro circa 200 persone, sceglie le parole come i grandi scrittori, e i poeti. Non ne dice mai una in più, e si imbarazza a essere preso per qualcosa di diverso da quel che è: cioè un uomo che ha avuto la fortuna di fare un mestiere che gli piace.

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Rifugge la definizione di “grande comunicatore” che gli dà il preside della facoltà di scienza della Comunicazione dell’Insubria Claudio Bonvecchio, suo intervistatore insieme a quattro suoi allievi, chiedendogli come si fa a diventarlo :”Questa è una domanda impossibile: io non so come si comunica, non mi sono mai occupato assolutamente di quello che voi chiamate “il messaggio”: Io faccio le mie cose, e penso solo che mi è andata bene”.
Svicola la richiesta di suggerimento su come promuovere la cultura a Varese: “Oddio, volete farmi fare l’amministratore? Non è il mio mestiere, non sono capace. Però qui c’è un mio amico, che è stato sindaco di Casale Monferrato e ha saputo promuovere proprio bene la cultura in generale, e il teatro in particolare. Poi l’hanno cacciato via, ma questa è un’altra storia”.

Men che meno si presta a fare l’indovino per rispondere a una domanda di una studentessa così formulata: ” I cantautori hanno sempre denunciato ciò che non va nella società: lei, come vede il futuro?” il sorriso di Conte – un sorriso, chissà perché, da sigaro, anche se non fuma mentre parla – si fa tenero. La piccola, evidentemente, non lo conosce… “Guarda – gli risponde con una cortesia di quelle che può uccidere – io sono sempre stato un cantautore che non ha mai denunciato un bel niente. Ma niente proprio: né di politico nè di sociale, nemmeno di ambientalista. Perciò non so proprio dirti nulla del futuro. Al massimo, così per chiacchierare, potrei dirti che in futuro temo che si perda sempre di più il controllo delle cose. Tutto qui”.

Delle parole però sa dire molto, anche se, premette: “mi sono sempre sentito più musicista che scrittore di testi”. Quelle della lingua italiana, innanzitutto: che “faccio così fatica ad usare, ancora ora, nelle canzoni. Perché sono difficili da ingabbiare in un testo, non si trovano mai quelle giuste”. Ma anche a quelle straniere “Che influiscono molto, nella musica. Perché quando metti per iscritto qualcosa, le parole nella tua lingua fanno un po’ male. Spiegano troppo bene cosa pensi. E invece bisognerebbe mantenere un po’ di mistero, nell’esprimersi”.
E infine anche a quelle di Piero Chiara, scrittore che ha tanto amato e in nome del quale si è convinto, dopo tanti anni di tentativi andati a vuoto, a venire a parlare a Varese “Io ho provato solo per due persone un senso di vuoto alla loro scomparsa: Louis Armstrong e Piero Chiara – spiega Conte – Quand’è morto Chiara mi sono chiesto: che libri compro, adesso? Lui aveva questa grande capacità, di godere delle storie che sentiva e di saperle scrivere. Ed era semplice. Non forzava la mano, non esagerava mai: in tre parole ti diceva com’era il tempo, lasciando il suo pubblico libero nelle meditazioni” e poi, paragonandolo a Simenon, altro grande scrittore semplice, nel senso più alto del termine: “aveva grandi similitudini con lui nello scrivere: innanzitutto, erano entrambi fortissimi nei dialoghi, dove normalmente gli altri si fregano” .

Per lui, invece il problema è il pudore, che si porta dietro per carattere: “In questo mestiere ho sempre dovuto fare i conti con il pudore. Ne sono schiavo, perché c’è un che di confessorio in questo mestiere che contrasta con il pudore. Per risolvere cercavo di allontanare da me i personaggi: per non farmi del male. E nelle canzoni, spesso, me la cavavo ambientandole in luoghi lontani. Facendo diventare così un sogno esotico quello che poteva essere un episodio quotidiano”.

Ma, forse, l’essenza della grandezza, umana e artistica, sta proprio nel pudore, in quel sentimento che spinge a eliminare piuttosto che ad abbondare, a minimizzare piuttosto che esaltare. Non è dunque un limite quello che fa dire a Conte, di fronte alla domanda: Ma le sue, sono solo canzonette, come cantava Bennato? “Mi sento meglio se dico: sono solo canzonette. Anche se magari non è vero”.
E che gli fa rispondere con saggezza alla domanda di Andrea Campane, che ha portato l’artista a Varese dopo tanti anni e tanti tentativi, che gli chiede – citando il “Je ne regrette rien” di Edith Piaf – se lui, di tutta questa vita passata rimpiange qualcosa:
“Io rimpiango tantissimo. Ma mi è andata benissimo”.

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Pubblicato il 19 Maggio 2007
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