Con i richiedenti asilo nello stabile di via Pola
Sono 18 gli stranieri ospitati nella casa d'accoglienza varesina. In provincia i posti a disposizione sono in tutto 70. Tante le lamentele e tanta la voglia di parlare
Lo stabile di via Pola è uno dei tanti centri di accoglienza gestiti da “Cooperativa di Mamre”, nell’occhio del ciclone per l’operazione "Templare" coordinata dalla procura di Varese che ha portato la Digos a perquisire 42 tra uffici, case e alloggi. All’interno sono ospitati al momento 18 stranieri, tutti in attesa che siano espletate le pratiche per la richiesta d’asilo: la commissione centrale di Roma ci mette dai 4 ai 6 mesi per dare il via libera o per bocciare la domanda, rispedendo di fatto al mittente lo straniero. Vengono dal Togo, dalla Sierra Leone, dalla Guinea, dall’Irak, dal Kurdistan e da tanti altri Paesi in guerra. Scappano dai soprusi, dalle minacce di morte, da una società malata che costringe ad uccidere una persona perché è di un’altra etnia, anche se fino a pochi giorni prima era il tuo vicino di casa. Scappano per cercare una nuova vita: arrivano via aereo, in quella che a ragione in tanti hanno definito la porta dell’Occidente, Malpensa. Ne arrivano ormai costantemente circa mille all’anno, centinaio più centinaio meno. Arrivano e chiedono asilo politico, chiedono di non tornare più indietro, di non andare a fare la guerra e rischiare di morire ogni giorno ed ogni notte. Arrivano e si dirigono decisi verso lo sportello gestito dal Consiglio italiano rifugiati o da quello gestito dalla cooperativa “Querce di Mamre”, collegata alla Caritas. Vengono riconosciuti, fotosegnalati dalla Polizia di Frontiera e poi dirottati nelle case come quella di via Pola: di posti a disposizione ce ne sono circa 70 in provincia di Varese ed a rotazione sono sempre pieni. In via Pola ci sono stranieri che aspettano da sei mesi, altri da quattro. Vanno a scuola di italiano tutti i giorni, aiutano a pulire le case dove abitano. Uno solo ha avuto il sì dalla commissione centrale e presto dovrà lasciare la casa d’accoglienza per andare da un’altra parte: dove non lo sa ancora. Fa il muratore, ha appena cominciato, ma di pagare un affitto al momento proprio non se ne parla. Un altro viene dal Togo, è scappato dalla guerra, lasciando in Africa due figli e una moglie. A 30 non vede prospettive per il futuro, si lamenta per il cibo che gli viene dato e per i pochi soldi che può avere a fine settimana, 10,5 euro: «Non siamo animali, ci sentiamo prigionieri, non possiamo pagare per curarci e in pronto soccorso ci dicono sempre e solo di prendere l’aspirina», spiega. Non ci sono conferme all’impianto accusatorio messo in piedi dalla Procura della Repubblica, quando gli chiediamo se li costringono a lavorare all’esterno o all’interno delle strutture delle cooperative (la legge lo vieta per i primi sei mesi di attesa dello status di asilante), tengono le bocche cucite, girano la testa e non rispondono.
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