Giulio Andreotti e la politica senza vergogna

Il senatore a vita in un'intervista alla trasmissione "La storia siamo noi" ha detto che Giorgio Ambrosoli, il commissario liquidatore della Banca Privata di Michele Sindona assassinato da un sicario assoldato dal banchiere siciliano, «Se l'andava cercando»

Era il 16 ottobre del 2004 e, nella sala Campiotti della Camera di Commercio di Varese, Francesco Rutelli era venuto a tirare la volata all’Ulivo per le regionali. Vicino a lui c’era il consigliere regionale Giuseppe Adamoli e altri ex democristiani finiti all’ombra della Margherita. Ad un certo punto dell’incontro venne chiesto esplicitamente un applauso per l’assoluzione di Giulio Andreotti. I relatori batterono le mani convinti, un po’ troppo convinti, come se quell’assoluzione fosse una sorta di rivincita per un’intera classe dirigente sommersa dal fango di tangentopoli. Alla fine dell’incontro mi avvicinai a Rutelli per chiedergli come mai avesse fatto quella richiesta, visto che era stata la prescrizione a salvare il senatore, e cosa pensasse della responsabilità politica di Andreotti nei fatti di mafia. Mi guardò con aria di sufficienza e mi liquidò rispondendo: «Lei prende le cose troppo da lontano» e se ne andò.
Le cose però in questo Paese bisogna prenderle per forza da lontano perché i politici non hanno memoria e soprattutto non conoscono la vergogna e quelli che la conoscono in genere escono dalla scena subito. Giulio Andreotti – come del resto Rutelli – invece è ancora lì. Pontifica con arroganza, scambiata spesso per arguzia. L’ultima affermazione scellerata, in ordine di tempo, è stata quella sull’avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca Privata di Michele Sindona, ucciso l’11 luglio del 1979 da un sicario per ordine dello stesso banchiere di Patti.
«Se l’andava cercando» ha detto il senatore a vita in un’intervista al programma Rai «La storia siamo noi». Poi ha ritrattato, come riportato dal Corriere della Sera, dicendo di essere dispiaciuto e che si trattava di «un’espressione di gergo romanesco».
È vero, Ambrosoli se «l’è andata a cercare» perché, a differenza di Andreotti e di tanti politici dell’epoca e di oggi, aveva il senso dello Stato, rispettava le regole, credeva nelle istituzioni e soprattutto non voleva che i danni provocati da un banchiere criminale ricadessero sulla collettività e sui risparmiatori. Insomma, era una persona onesta e perbene.
Un consiglio: per ricostruire quella storia non affidatevi alle parole senza vergogna dei politici, leggete invece “Un eroe borghese” (Einaudi) di Corrado Stajano, da cui è stato tratto il film di Michele Placido, e “Qualunque  cosa succeda” (Sironi editore) di Umberto Ambrosoli.

Michele Mancino
michele.mancino@varesenews.it

Il lettore merita rispetto. Ecco perché racconto i fatti usando un linguaggio democratico, non mi innamoro delle parole, studio tanto e chiedo scusa quando sbaglio.

Pubblicato il 09 Settembre 2010
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