Un’istruzione tecnica da rilanciare: mancano tecnici giovani e preparati

Si rinnova il grido d'allarme in un incontro da "open day" all'Isis Fachinetti con Univa e ed ex studenti divenuti lavoratori e imprenditori di successo. L'avvertimento: "In Cina sono più bravi di noi, qui manca voglia di fare"

Scuola e lavoro, pianeti ancora troppo distanti. Non all’Isis Facchinetti, l’istituto castellanzese "erede" delle tradizioni di Itis e Ipsia, dove si teneva giovedì un incontro da "open day" con rappresentanti del mondo aziendale ed ex studenti, divenuti lavoratori e imprenditori di successo, per fare il punto sugli sbocchi occupazionali degli studi tecnici. I quali, ricordava il dirigente scolastico prof. Carlo Famoso, andranno soggetti a un rilevante riordino nell’ambito della corrente riforma scolastica. L’istruzione tecnica non può e non deve più essere considerata il ripiego per "quelli che non hanno voglia di studiare": la mentalità deve cambiare. È semmai adatta per quei ragazzi (e quelle ragazze) che hanno voglia di darsi da fare. E l’industria di oggi è drammaticamente a corto di nuovo personale tecnico formato, e non riesce a sostituire nemmeno quelli che vanno un pensione. Una minaccia che pende come una spada di Damocle su un settore industriale che in provincia di Varese conta ancora 118mila addetti, pari al 32% della forza lavoro – valore superiore del 50% alla media nazionale, assestata al 21%.
Ecco dunque perchè difendere e pubblicizzare la prospettiva dell’istruzione tecnica: necessità colta con chiarezza da Univa, la rappresentanza varesina di Confindustria. Il dirigente dell’Isis Facchinetti ha fatto presente che solo lo scorso anno il gap fra richiesta di personale tecnico da parte dell’industria e offerta del medesimo da parte della scuola aveva raggiunto le 16mila unità. La richiesta c’è ovunque; anche nel tessile, che ancora ha bisogno di maglieri, non solo di tintori; nel settore informatico, il più in voga tra famiglie e ragazzi; in quello chimico; in quella della meccanica e meccatronica, che offre molti sbocchi al perito neodiplomato.

Per Univa Raffaele Ghezzi ribadiva con i numeri la forza dell’industria varesina, che pur nella crisi resta pilastro insostituibile dell’economia locale: «siamo ancora un’eccellenza manifatturiera». Contando tutte le 10.507 imprese esistenti in provincia, di cui circa il 15% sono associate Univa, si calcolano 9 imprese al chilometro quadro, contro le due di media italiana; per un settore industriale potente e variato, dedicato alla meccanica nelle sue varie branche per quasi il 30%, al tessile-abbigliamento ancora per il 18%, con il settore chimica e plastica-gomma a ruota. «Qui si fa il 2,7% dell’export made in Italy con l’1,5% della popolazione nazionale». Sono i numeri dell’orgoglio produttivo di questa terra, ma la minaccia è dietro l’angolo: il numero di diplomati tecnici è penosamente inadeguato a "star dietro" al turnover richiesto anche dai soli pensionamenti. Nel tessile la proporzione è di 1 diplomato l’anno ogni 100 addetti di settore, nella gommaplastica anche meno, nel meccanico 6 ogni 100 addetti. Non solo: si rileva spesso una scarsa conoscenza dell’inglese, foriea di limiti e problemi nei contatti con l’estero. Morale: «Bisogna tornare a puntare sull’istruzione tecnica».

Se a livello universitario la LIUC ha un valido servizio placement collegato con le aziende del territorio, Isis Facchinetti è in stretta collaborazione con varie imprese, i cui rappresentanti sono sfilati davanti a genitori e potenziali nuovi allievi per spiegare come d’ora in poi, l’alternanza scuola-lavoro dovrà tradursi in realtà in modo coerente con i bisogni concreti del tessuto produttivo. Anche a costo di sfatare qualche mito che induce le famiglie a preferire sempre più i licei all’istruzione tecnica o professionale. Numerose le storie personali di ex studenti: da una giovane come l’ingegner Stefania Solari, imprenditrice informatica a Legnano, diplomata nel 1998, a un veterano come Mauro Cavelli, diplomatosi… quarant’anni e un mondo prima.
In testa Renata Cerutti, imprenditrice tessile, presidentessa degli ex studenti Itis, diplomata nel ’68, da "figlia d’arte", quando «qui si limava, si piallava, si lavorava al tornio. Ci si faceva capire che prima di mettere il camice bianco non dovevamo temere di mettere la tuta blu. E la selezione era dura: di 150 al primo anni rimanemmo 90 al secondo». Oggi, riferisce il preside Famoso, la selezione è del 20% al primo anni, e del 40% nei cinque anni. «Dall’Itis siamo usciti in seimila, non c’è azienda tessile in cui non ci sia uno di noi. Ora c’è necessità di ricambio, ci sarà un calo fortissimo di tecnici nei prossimi anni». Tra le richieste del mondo della produzione, a seguito dell’importante convegno tenutosi la scorsa primavera e degli sviluppi successivi con il coinvolgimento dell’asessore regionale Rossoni, quella che «ci siano persone che sappiano capire la differenza tra formazione e informazione: la prima si ha solo quando si affianca alla scuola l’industria. I ragazzi devono avere chiaro cosa vuol dire lavorare in azienda». Un’altra richiesta è quella di «un anno successivo a questa scuola per favorire l’inserimento in ambito aziendale».

Con Mauro Cavelli, anche’egli figlio d’arte, si ripete la richiesta di tecnici formati e l’osservazione che per gli stage in azienda servono periodi di lunghezza adeguata, due settimane servono a poco. «Chi non conosce il tessile, dice che è un settore superato, che non c’è più niente di nuovo, che è tutto cinese, turco, indiano. Io invece da 52 anni imparo qualcosa di nuovo ogni giorno». La crisi, la globalizzazione: «Dal 2008 è stato uno tsunami. Per cinquant’anni ho avuto un solo problema: produrre. Ora ne ho un altro: innovare». Cavelli è un difensore inveterato del made in Italy, «apprezzato ovunque, tranne che in Italia»: esporta il 40% in Russia. È ottimista: «Il settore vuole resistere: passato lo tsunami, avremo uno sviluppo notevole».

Francesco Iadonisi, manager del personale di BTSR, azienda olgiatese presente a livello globale e attiva nelle moderne tecnologie, anche software, per il meccanotessile, lodava la collaborazione instaurata ormai da anni con l’Isis Facchinetti. «Abbiamo piacere di avere con noi i ragazzi. Dal terzo anno con la riforma ci sarà l’alternanza scuola-lavoro, ma siamo andati oltre, chiedendo una vera pianificazione nel percorso scolastico. Ci serve per conoscere la persona, che se rientra nelle nostre caratteristiche sarà introdotta volentieri in azienda. Tra i nostri collaboratori tanti sono ragazzi usciti da questo istituto». Con Lucia Riboldi di Viba, azienda chimica tradatese, si ripeteva che serve personale preparato: «capitale umano, ma come investimento su stessi. Non basta più soltanto una buona base tecnica, servono competenze: lingue straniere, pensiero critico, saper lavorare in team, problem solving, eccetera. Bisogna saper applicare le conoscenze sul piano pratico».
Severo e chiaro, infine, l’intervento di un altro ex studente Itis che ha fatto carriera: Roberto Maneggia, diplomatosi nel 1986 come perito chimico. Dopo dieci anni alla Montedison, è stato direttore di produzione all’Orsa; poi si è messo in proprio con una società, assorbita nel 2008 da una multinazionale per la quale dirige ora 14 stabilmenti in giro per il mondo. «Ho a che fare continuamente con dei mediocri, il futuro ce l’hai solo se non sei un mediocre. In Cina sono molto più bravi di noi, hanno fame, sanno lavorare. India e Cina hanno preparazione molto alta. In Italia occorre darsi da fare, prepararsi. Qui non c’è più la voglia di fare. Queste sono le sensazioni che ho girando il mondo. Anche in Russia si lavora dodici ore, i tecnici valgono i nostri ma hanno più voglia di imparare. E ho notato la differenza tra i nostri figli e i loro». Che non è a favore dei nostri, oggi.

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Pubblicato il 02 Dicembre 2010
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