La Destra del Popolo per l’Italia si presenta: con un dibattito “revisionista” sull’Unità

Anche a Busto l'associazione politico-culturale degli ex-An, "benedetta" da Marco Airaghi. Subito un confronto sul Risorgimento con due voci "revisioniste": Braglia e Oneto, moderate da Renato Besana de Il Giornale

La Destra del Popolo per l’Italia sbarca a Busto Arsizio. L’associazione politico-culturale rappresentativa di una componente ex-An all’interno del "pianeta PdL", annuncia l’apertura di un gruppo locale anche in città, e lo fa con la "benedizione" del presidente Marco Airaghi (foto), consigliere di Ignazio La Russa al Ministero della Difesa e coordinatore vicario del PdL varesino. A livello locale è Checco Lattuada a salire sul palco per la presentazione; ma la serata ha visto anche un dibattito sull’Unità d’Italia, con spunti "sulfurei" e revisionisti forniti dalla storica Elena Bianchini Braglia e da Gilberto Oneto, moderatore Renato Besana de "Il Giornale". Un confronto  e i modi in cui si è raggiunta – soprattutto, sul modo in cui oggi viene guardata criticamente nello "specchietto retrovisore" della storia, da destra soprattutto, ma non solo.

«La Destra del Popolo per l’Italia vuole portare avanti gli ideali storici della destra, onore, lealtà, sicurezza, nazione e Patria, per noi valore intangibile. La amiamo anzi così tanto, la nostra Italia, da tenere questo dibattito con voci dissonanti da noi» ha detto Airaghi in apertura, davanti a quasi un centinaio di intervenuti al Museo del Tessile. «L’associazione sarà uno strumento di confronto, un luogo che, ecco, forse ancora ci mancava all’interno del PdL, contenitore alla cui nascita An ha partecipato covintamente e in cui abbiamo il dovere di essere parte propositiva e propulsiva».
«Siamo eredi di una tradizione ultradecennale» ha detto Lattuada, «Unità d’Italia come fenomeno da contestualizzare nel suo tempo», e allo stesso modo «tema da affrontare in modo radicale, oltre la  retorica e oltre la demagogia di certe posizioni», e qui il consigliere pidiellino cita criticamente le prese di posizioni leghiste per evitare ogni benchè minima spesa per le celbrazioni dei 150 anni dall’Unità. Eppure, e il dibattito di stasera ne è riprova, è una destra che è capace dunque di far convivere il patriottismo italiano dichiarato e orgoglioso di chi viene dall’esperienza missina prima, di AN poi, con le critiche corrosive fino al secessionismo della Lega. Numero d’equilibrismo politico d’alta scuola che tiene in piedi la coalizione berlusconiana da una dozzina d’anni, e che trova la sua sintesi nell’orizzonte, radioso o nebbioso a seconda dei puni di vista, del federalismo. Ma già il PdL da solo, partito-contenitore, è un microcosmo degno della vecchia DC con tutte le sue componenti: cattolici legati a CL, liberali, "laici" (ex craxisti), e appunto ex missini-aennini.

Con Besana a "dirigere il traffico", rilevando d’aver sottratto gli intervenuti al «duplice pericolo di Benigni su Raiuno e Santoro su Raidue» (sic), Braglia e Oneto hanno proposto la loro revisione critica del mito risorgimentale, del mito italiano. La prima, storica, studiosa attenta in particolare agli Este, famiglia di plurisecolare peso in Emilia e non estranea alla stessa storia varesina (nel Settecento, da "subappaltatori" di Maria Teresa d’Austria), è autrice di "Le radici della vergogna", testo che smitizza l’epopea fondativa dello Stato-nazione italiano. Il secondo, leghista del filone autonomista-identitario, è autore de "L’Iperitaliano", biografia "in contropelo" di Giuseppe Garibaldi, e del recente "La strana unità", dedicato proprio ai temi del Risorgimento. E se Besana già ricorda che la nazione, come concetto romantico nato in ambito tedesco, viene compiutamente incarnata in uno Stato solo con il giacobinismo dei rivoluzionari francesi e con le armate napoleoniche che esportano il concetto in punta di baionetta, Braglia osserva che con gli Stati preunitari è andata perduta una ricchezza culturale fatta di diversità. Vittorio Emanuele rimase "secondo", come nel suo Piemonte, invece di dirsi "primo" re d’Italia, il che la dice lunga su come l’unificazione si tradusse nei fatti una opportunistica conquista savoiarda del resto della penisola; ricorda poi Braglia che l’estensione della legge piemontese a territori molto diversi, su tutti il Sud già borbonico, creò problemi a non finire. «L’Italia fu frutto di una violenza, militare e amministrativa, un fatto che per decenni e decenni la cultura dominante ha cercato di nascondere» è la sua conclusione, che non è però una condanna. «Non penso d’essere con ciò antiitaliana, un atto d’amore per la propria patria è anche riconoscere gli errori del passato, per superarli». L’Italia in realtà esisteva da molto prima, argomenta la storica, e la sua unificazione ha fatto venire meno quella ricchezza che era data, paradossalmente, proprio dalle sue divisioni; nè è corretto, sostiene, denigrare ciò che esisteva prima dell’Unità, che va riscoperto e valorizzato.
Oneto riduce l’Italia ai suoi termini minimi: dal significato iniziale di 2500 anni fa, limitato alla punta meridionale della Calabria, alla sua estensione sotto i Romani a tutta la penisola, fino alle Alpi, all’indebolimento medievale quando "Lombardia" era la parola più usata per indicare tutto il Nord (ma il fiorentino Dante nel Trecento scriverà "ahi serva Italia, di dolore ostello", rivolgendosi al mantovano e quindi "padano" Sordello ndr), fino ad una fioritura culturale e commerciale, nella divisione, che Oneto riconosce e richiama. Italia come «sogno morale» noto in tutta Europa, o come mero «termine colto» nei suoi confini, che solo Napoleone, ancora lui, tirerà fuori dal cassetto riformando nel solo centronord un regno d’Italia di fatto defunto da secoli immemori. E questa “mezza” Italia, curiosamente coincidente con la più “generosa” definizione leghista di Padania, secondo Oneto è ciò che nel primo Risorgimento i patrioti avevano in mente, almeno fino al 1848 e all’irruzione sulla scena delle idee di Mazzini, portatore di un’idea più ampia, centrata su Roma. Né si può storicamente dimenticare che Cavour l’Italia se la trovò “chiavi in mano”, quando la sua intenzione era stata di estendere il regno savoiardo a tutto il Nord, ma non oltre. Poi Garibaldi ci avrebbe messo lo zampino, aguzzando gli appetiti della corona e guadagnandosi l’inveterato odio dei leghisti e dei neoborbonici di ritorno di centocinquant’anni dopo.

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Pubblicato il 18 Febbraio 2011
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