Liliana Segre, testimone dell’Olocausto, incontra i ragazzi dell’Ipc Verri

Al Sociale l Segre ha portato una testimonianza forte contro l'aberrazione di Auschwitz e l'iniquità della persecuzione e dello sterminio su base "razziale". Perchè non accada mai più

Appuntamento importante quello di stamane al Sociale con una testimone dell’Olocausto del popolo ebraico: Liliana Segre. La sua lezione ai ragazzi dell’Ipc Verri dal palco, accanto alla preside Bolis, alla professoresa Annita Di Mineo organizzatrice dell’evento per l’istituto, al sindaco Gigi Farioli che, convalescente dal recente infortunio, è tornato all’attività, è stata come sempre forte, chiara, esemplare. Un racconto che ha tutto il pathos di una voce di donna, che in realtà è la voce di una ragazzina di tredici anni (nel 1944) invecchiata precocemente da esperienze terribili: la persecuzione razziale, la fuga e il respingimento al confine elvetico ("fu quell’ufficiale svizzero tedesco pieno di disprezzo e decretare la nostra condanna a morte"), il carcere, il viaggio, Auschwitz, le infami "selezioni", il fumo della ciminiera del crematorio, la marcia della morte all’evacuzione.
"Sono contenta che ci siano tante ragazze fra di voi, perchè meglio sono in grado di capire cosa significhi la dignità violata della donna, la nostra nudità di schiave ridotte a scheletri esposta agli sguardi sprezzanti dei nostri carnefici. Che non erano pazzi, erano persone normali, ma indottrinate dalla propaganda, e che poi dissero di aver solo ‘seguito gli ordini’".
"Perchè? Perchè? Perchè?" quelle domande che risuonavano nell’anima di una tredicenne non hanno avuto piena risposta nemmeno quano Liliana è diventata nonna. Di famiglia ebraica, subì l’esclusione dalle scuole pubbliche disposta dal regime fascista. Nascostasi presso famiglie che con coraggio la protessero dalle retate dei nazifascisti, tentò con il padre e due cugini la fuga in Svizzera, accompagnata da contrabbandieri varesini. Giunta ad Arzo, in terra elvetica, invece di trovarvi asilo e rifugio fu respinta nonostante le suppliche e le lacrime ("la barca è piena", si sentirono dire in troppi in quegli anni), consegnata agli sgherri di Salò e incarcerata, con i suoi tredici anni, a Varese, a Como, e infine a San Vittore dove si potè ricongiungere con il padre e trovò, unica nell’indifferenza e nella lotta di tutti per sopravvivvere, la meravigliosa solidarietà dei detenuti per crimini comuni, la teppa, la mala, gli unici a esprimere affetto per coloro che erano imprigionati ingiustamente, "colpevoli di essere nati". Da qui la deportazione, il viaggio orrendo, concluso nel silenzio della morte imminente, e rotto infine dai latrati di cani e guardie di Auschwitz.

Di 605 deportati su quel treno ne tornarono in 20. Una salvezza casuale per Segre, dovuta al suo sembrare più grande della sua età, e al fatto di essere stata destinata, nel pieno del duro inverno polacco, a una fabbrica di munizioni fuori dal campo. Il dramma di apprendere dalle compagne di campo cos’era quel fumo dalla ciminiera, quell’odore dolciastro – quello della carne umana bruciata nei forni crematori. "Sono pazze", pensò Liliana all’inizio. Invece era tutto vero. Ma anche in quelle circostanze, "scegliemmo la vita", adattandosi a tutto, alla zuppa schifosa e liquida, al pane concesso a fettine quasi trasparenti, a veder mandare in gas l’amica francese alla selezione senza batter ciglio, portandosene il rimorso per tutta una vita. Infine, dopo la salvezza insperata e la libertà ritrovata, dopo decenni di pudico silenzio, a ritrovare la parole per testimoniare, "ma solo una volta consapevole di essermi liberata dall’odio che avevo provato per quegli Hitlerjugend che ci sputavano e insultavano mentre noi vestite di stracci andavamo al lavoro forzato". Quando l’odio lasciò posto alla pena, "quando capii che fortuna fosse esser stata vittima ma non carnefice", Liliana Segre fu pronta "per diventare testimone di pace e di libertà".

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Pubblicato il 11 Febbraio 2011
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