“Non sai far nulla, imparerai a fare tutto”. Così nacque il mito di Meneghin

Lunedì 14 sarà presentata la biografia "Passi da Gigante", scritta con Flavio Vanetti. Max Lodi e Pier Fausto Vedani svelano alcuni episodi curiosi della carriera del grande pivot di Ignis e Mobilgirgi

(d. f.) Lunedì 14 novembre alle 18,30 il Salone Estense del palazzo comunale a Varese ospiterà la presentazione del libro "Passi da gigante", la biografia di Dino Meneghin scritta con Flavio Vanetti, giornalista varesino del "Corriere della Sera". Per l’occasione, l’omaggio di VareseNews è questa intervista di Pier Fausto Vedani a Max Lodi, due giornalisti che del "Mito" sanno tutto e che lo hanno seguito nella sua fantastica parabola con la maglia di Ignis e Mobilgirgi.

Verso la metà degli Anni Sessanta a Varese c’erano due giornalisti, Pagani e Vedani che, in qualità di corrispondente della Gazzetta dello Sport il primo e responsabile delle pagine sportive della Prealpina il secondo, ogni giorno dovevano dare notizie del boom delle squadre locali di calcio e pallacanestro. Erano tempi da leggenda e la si stava scrivendo grazie alla generosità e alla passione di Giovanni Borghi, un mito anche in campo industriale con la sua Ignis. Borghi patron e tifoso di un Varese in serie A e della squadra di basket già sulla dirittura di approdo a una stagione, durata un decennio, ineguagliata anche in campo internazionale.
Quando il Varese Calcio per la prima volta sarebbe andato in A e la Pallacanestro Ignis avrebbe vinto il suo secondo scudetto per poi inanellare una Coppa Intercontinentale e una Coppa delle Coppe, c’erano due ragazzini, entrambi classe 1950, ai quali il professor Nico Messina, spezzava il pane del basket: Dino Meneghin, futuro campionissimo, e Massimo Lodi che anni dopo sarebbe diventato il più preparato giornalista della sua generazione.
A partire dal campionato 1968-69 quando la Ignis, con Meneghin in campo e Messina in panchina, divenne inarrestabile, le vite di Pagani, Vedani e Lodi si sarebbero intrecciate con quelle del giocatore e del tecnico. Con entrambi nacque un rapporto fatto di rispetto e di una simpatia che nel tempo sarebbe diventata affetto. Non deve meravigliare se Dino Meneghin nel suo libro "Passi da gigante" abbia voluto ricordare più volte noi tre giornalisti dei primi anni della sua vita sportiva, con i quali ha sempre mantenuto eccellenti rapporti, mai incrinati dagli inevitabili lunghi intervalli tra un contatto personale e l’altro.
Dino poi con il tempo non ha mutato carattere, non ha rinunciato al suo spirito, alla sua forza giovane e non ha mai voluto recedere da quel suo essere baloss nemmeno quando è diventato presidente della federazione e dirigente internazionale. Quando festeggiammo Manuel Raga al Palasport, trovai Dino tra i vip, seduto in una poltrona di prima fila. Fu un abbraccio quasi tra nonno e nipote, poi Dino si sedette per non rendermi poco agevole la conversazione. Al momento del congedo però non mi fu possibile nemmeno un attimo di malinconia: a causa di uno sgambetto del quale Dino, assieme a Dodo Rusconi, era autentico e perfido specialista, mi trovai proiettato verso una fila di poltrone che per fortuna ressero al mio rovinoso atterraggio. E mentre "volavo" vidi Dino che con aria distratta e innocente guardava Raga festeggiato in mezzo al parquet. Mi dissi che si trattava di un’altra dimostrazione di affetto e non di irriverenza per i miei capelli ormai bianchi dovuti a 18 anni di vita in più. Ma è Max Lodi (primo da destra nella foto – d’epoca – sotto, accanto a Sandro Gamba. Il primo da sinistra è Pier Fausto Vedani) il testimone più prezioso della nascita e della crescita cestistica di quel Meneghin che Varese ha continuato ad amare anche quando la società lo vendette all’odiata Milano con la quale Dino avrebbe raccolto altri trionfi.

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Max, riandiamo alla leva che Nico Messina aveva indetto tra i giovanissimi di Varese.
«Era il ’62, a Varese il basket giovanile si chiamava solo e soltanto Robur et Fides. Il gran maestro era Gianni Asti, allenatore formidabile. Messina capì che anche il futuro dell’Ignis doveva passare per la creazione d’un vivaio. E così fece. Organizzò quella leva, che si tenne alla palestra Pascoli di viale Ippodromo, ed ebbe una risposta massiccia. Massiccia ed entusiasta».

Come e quando si è sviluppato il tuo rapporto con Dino?
«Frequentavamo tutt’e due la media Dante, classe seconda, io nella sezione A e lui nella B. Era chiamato "il lungo", e lo guardavamo con curiosità. I primi giorni della leva dell’Ignis, Messina ci disse: se vedete in giro dei ragazzoni, ditegli di venire qui. Più alti sono e di più diteglielo. Lo dicemmo a Dino, che un giorno si presentò alla palestra dell’Ippodromo, assolutamente ignaro di che cosa fosse il basket».

Che cosa in particolare può aver fatto scattare in lui la molla dell’interesse e che ruolo ha avuto Messina nella sua formazione?
«La curiosità, l’entusiasmo per le cose nuove, l’esuberanza naturale. Se gli dicevi: proviamo a far questo, lui provava. Messina, poi, era un trascinatore. Ci ammaliò con la sua carica umana. E ammaliò Dino. Gli diede fiducia subito: non sai fare nulla, ma imparerai a fare tutto. Meglio di tutti. E lo mise a penare per due anni di fila sui fondamentali e a difendere su Bovone, pivot emergente della prima squadra. Messina si è visto riconoscere meno meriti di quelli che aveva».

Dal punto di vista strettamente cestistico quale è stata la dote che Dino ha meglio affinato? «Uno straordinario senso dell’anticipo. Mai visto uno con il suo tempismo. È stato un difensore eccezionale anche contro pivot più alti di lui perché li bruciava sull’attimo decisivo. Poi la grinta: accendeva d’energia una squadra intera».

Gli americani non regalano niente a nessuno, la loro è terra di miti ineguagliabili, eppure Meneghin è ricordato nel “museo” degli assi USA, la hall of fame. 
«Avrebbe potuto giocare nei professionisti, per i quali provò. Poi per tanti motivi decise diversamente. Ma aveva il talento che piace agli americani. Un talento da specialista: saper fare bene pochissime cose, anche una sola».

Da giornalista quale è stata l’emozione più grande che ti ha regalato il compagno dei tuoi sogni sportivi di dodicenne?
«La finale di Coppa dei Campioni del ’73, vinta dalla Ignis a Liegi contro l’Armata Rossa. Finii di dettare in redazione il pezzo della partita, poi mi precipitaii negli spogliatoi per raccogliere le interviste. Incrociai Dino e invece di fargli una domanda lo abbracciai, ricevendone una tremenda stritolata. Poi piangemmo tutti e due. Più tardi, in albergo, mi disse: "Sei proprio un pirla, ma guarda che cosa mi hai fatto fare"». 

A pochi nostri colleghi è capitato , passando dal campo alla scrivania, di essere protagonisti di una situazione davvero singolare come la tua.
«Mi trovai a scrivere del mio ex allenatore e del mio ex compagno di leva. Ma devo dire che non fu mai imbarazzante. Primo perché, essendo bravissimi, vincevano sempre. Secondo perché, quand’era il tempo delle critiche, la risposta non veniva da un mugugno, ma da un vaffa fraterno. Come quando stavamo tutti dalla stessa parte. E il caso si chiudeva lì».

Dino in materia di scherzi e imprese è stato inarrestabile anche quando era già titolare, puoi svelare qualche altarino?
«Un classico, negli alberghi in cui la squadra veniva ospitata, era innaffiare di pipì le scarpe che i clienti mettevano fuori delle camere perché fossero lucidate. Poi le incursioni nelle cucine per purghe di massa. Lo svuotamento delle borse e gli scambi dei bagagli. La distruzione degli articoli dei giornalisti, allora scritti a macchina. E dunque non più recuperabili. A Varese un bersaglio fisso di Dino era la tabaccheria all’Arco Mera. Una volta sostituì per qualche minuto il titolare, andato a farsi un panino al caffè Zamberletti, e regalò pacchetti di sigarette a tutti. "Oggi – disse ai clienti – c’è una ricorrenza particolare e si festeggia". Un’altra volta, di ritorno da una cena al Montallegro, depositò un amico un po’ brillo nell’aiuola di piazza Monte Grappa. Lo svegliarono gli spazzini all’alba».

Quanto ha contato che nella squadra del mito ci fossero parecchi varesini?
«Moltissimo. Più che una squadra, fu un gruppo di amiconi. Di goliardi. E questo fece la differenza. Oggi lo chiameremmo spirito identitario, proprio quello che manca un po’ dappertutto, non solo nello sport. Dobbiamo essere grati a Dino, a Dodo, a Aldo, a Manuel, a Bob, a Ivan, a tutti quelli che hanno esportato il nome di Varese nel mondo. Il bel nome di Varese».

Dino spirito allegro sempre e comunque. Ma un giocatore così bravo e intelligente non avrebbe potuto trasmettere il suo sapere alle nuove leve? Proprio impossibile vederlo allenatore?
«Credo che non l’abbia mai attirato questa professione. Ci vuole anche molta pazienza, e lui sul campo non ne ha mai avuta. Ce l’ha al di fuori, gli riesce benissimo di relazionarsi con gli altri. Sa ascoltare e capire. E quando parla, parla prima di tutto il suo carisma. Un dirigente ideale. E i giovani hanno bisogno d’imparare anche, forse soprattutto, dai bravi dirigenti».

Teniamocelo allora così e ben stretto perché pochissimi altri hanno dato al basket varesino e italiano quello che ha dato Dino. E diciamo ancora grazie per questo dono anche all’indimenticabile Nico Messina. Da colleghi che gli sono affezionati ringraziamo anche Flavio Vanetti, anzi Max, se permetti vorrei farlo con le tue parole, con quello che hai scritto terminando il tuo articolo su La Provincia dedicato alla presentazione di "Passi da gigante": «Dino è stato tutti noi. Noi ragazzi degli Anni Sessanta, prima suoi compagni di squadra, poi complici di goliardate, poi costretti dal mestiere (di pennuti, diceva lui, aggiornando la definizione di pennaioli; altro che di giornalisti) a scrivere con qualche imbarazzo delle sue imprese. Per fortuna, quasi sempre imprese positive. Altrimenti, sai che disagio per via del conflitto d’interessi amicali. Dino ci ha regalato emozioni. Forti emozioni. L’ebbrezza di vivere per vincere, l’amore per la passione sportiva, il culto del sacrificio. Così trasgressivo, così diligente. Così matto, così serio. Così spontaneo, così sorvegliato. Un doppio continuo: non di bene e male, ma di bene uno e di bene due. Ha narrato il suo (il nostro) tempo come pochi hanno saputo narrare, andando ben oltre il basket. Nessuno meglio di Flavio Vanetti avrebbe potuto raccoglierne la testimonianza. Perché Flavio, come Dino, è un mix di bizzarria e professionismo, di bosinità e spirito di mondo, di competenza e dissacrazione. I "Passi da gigante" li ha fatti anche lui, sui parquet del giornalismo. Chapeau a questa coppia nient’affatto strana».

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 10 Novembre 2011
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