I militari della “Ugo Mara” ricordano la ritirata di Russia

Giunti da qualche settimana a Kabul hanno ricordato la vicenda di Nikolajewka e dei 40 mila soldati italiani che vi giunsero stremati e semicongelati nel '43

Anche lontani dalla Madre Patria, gli italiani del Comando ISAF a Kabul non dimenticano i forti legami con le tradizioni nazionali. Stamattina, infatti, presso la base Nato in territorio afghano sono stati affissi nelle aree comuni dei poster che celebrano il 70° anniversario della nota battaglia di Russia che permise al corpo di spedizione italiano di rompere l’accerchiamento sovietico e di rientrare in Patria.

Il mattino del 26 gennaio 1943 gli alpini della “Tridentina”, alla testa di una colonna di 40.000 uomini quasi tutti disarmati e in parte congelati, giunsero davanti a Nikolajewka. Dopo 200 chilometri di ripiegamento a piedi, sempre aspramente contrastati dai reparti nemici e dai partigiani sovietici, dopo una giornata di lotta, espugnarono a colpi di fucile e bombe a mano il paese eliminando i russi che si erano trincerati fra le case del paese, protetti da un terrapieno della ferrovia che costituiva un’ottima protezione. Le forze sovietiche che sbarravano il passo agli alpini ammontavano a circa una divisione. Verso le 9,30 venne ordinato di attaccare. In un primo tempo si lanciarono all’assalto gli alpini superstiti del btg “Verona”, del “Val Chiese”, del “Vestone” e del II battaglione misto genio della “Tridentina”, appoggiati dal fuoco del gruppo artiglieria del “Bergamo” e da tre semoventi tedeschi.

La ferrovia, dopo sanguinosi scontri, fu raggiunta. In più punti gli Alpini riuscirono a superre la contro scarpata e a raggiungere le prime isbe dell’abitato dove sistemarono le mitragliatrici, con gravissime perdite per il violento fuoco nemico. Nonostante le sanguinose perdite, gli Alpini continuarono a combattere con accanimento: fu un susseguirsi di assalti e contrassalti fino alla conquista della stazione ferroviaria e un plotone del “Val Chiese” riuscì ad arrivare fino alla chiesa.
La reazione russa fu violentissima: gli Alpini furono costretti ad arretrare e a difendersi in attesa di rinforzi. Verso mezzogiorno giunsero in rinforzo i resti del battaglione “Edolo”, del “Morbegno” e del “Tirano”, i gruppi di artiglieria “Vicenza” e “Val Camonica” ed altre modeste aliquote di reparti della “Julia” col battaglione “L’Aquila”.

Molti caddero ma la resistenza era ancora attivissima e l’esito della battaglia non era del tutto scontato. La situazione si faceva sempre più tragica perché il sole incominciava a scendere sull’orizzonte ed era evidente che una permanenza all’addiaccio nelle ore notturne, con temperature di 30-35 gradi sotto lo zero, avrebbe significato per tutti l’assideramento e la morte.
Quando ormai stavano calando le prime ombre della sera e sembrava che non ci fosse più niente da fare per rompere l’accerchiamento, il Generale Reverberi, Comandante della “Tridentina”, saliva su un semovente tedesco e, incurante della violenta reazione nemica, al grido di "Tridentina avanti!" trascinava gli Alpini all’assalto.

I feriti e i combattenti ancora validi si lanciarono verso il sottopassaggio e la scarpata della ferrovia, la superarono travolgendo la linea di resistenza sovietica. I russi sorpresi dalla rapidità dell’azione dovettero ripiegare abbandonando sul terreno i loro caduti, le armi ed i materiali. Il prezzo pagato dagli alpini fu enorme: dopo la battaglia rimasero sul terreno migliaia di caduti. Tutti gli Alpini, senza distinzione di grado e di origine, diedero un esempio di coraggio, di spirito di sacrificio e di alto senso del dovere.

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Pubblicato il 26 Gennaio 2013
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