Gli imprenditori si “nascondono”, le banche vanno di fretta

Le grandi incomprensioni nascono da una non-comunicazione. L'economista Fabio Bolognini interverrà come relatore all'incontro "Impresa e banca: un dialogo sostenibile", organizzato da Confartigianato Imprese Varese

Fabio Bolognini interverrà come relatore all’incontro "Impresa e banca: un dialogo sostenibile", organizzato da Confartigianato Imprese Varese e a cui parteciperà anche Luca Barni, direttore generale della Banca di credito cooperativo di Busto Garolfo e Buguggiate. L’incontro si terrà venerdì 12 aprile (inizio ore 18 e 30) allo Star Hotel di Saronno, Varesenews seguirà i lavori con una diretta multimediale. (Per iscriverti all’incontro clicca qui; segui la diretta con Twitter #futuroartigianoVa).
Bolognini  ha ricoperto posizioni di rilievo all’interno del sistema bancario italiano, affrontando il problema del rapporto tra banche e imprese. Nel 2010 ha aperto il blog "Imprese+Finanza" è amministratore delegato di Linker.biz.

Bolognini, a cinque anni dallo scoppio della crisi economico-finanziaria, la stretta sul credito per le piccole imprese è peggiorata. Come si può affrontare, in modo logico e razionale, il problema?

«Tutti i problemi complessi, come quello del credito alle imprese, si affrontano con una buona analisi, smontando i pezzi e rimontandoli o sostituendoli se sono difettosi come farebbe un bravo artigiano. Il credito alle imprese non è solo domanda e offerta, ma due processi tra chi (l’impresa) ha bisogno di finanza per produrre e crescere e chi (la banca) deve scegliere a chi dare fiducia per essere comunque rimborsato alla scadenza. Entrambi i processi sono largamente difettosi e la combinazione di recessione e mancanza di liquidità hanno messo a nudo i difetti. Pertanto le due parti devono ora darsi da fare nella modifica dei processi tenendo conto dei rispettivi vincoli: per le imprese la bassa redditività e l’eccessiva dipendenza dal debito bancario, per le banche la scarsità di capitale e la difficoltà nel valutare le reali prospettive di un numero enorme di piccole imprese (circa 1.500.000). Il paradosso è che i difetti sono simili e si stanno sommando su larga scala».

Quali sono i fattori nel settore del credito che maggiormente mettono in difficoltà le imprese?
«Credo che per le imprese sia l’incapacità di prevedere se e quanto credito sarà disponibile in assoluto e a fronte di necessità. Potrà sorprendere, ma da molti anni ritengo che a monte il problema sia nella modesta quantità e qualità del tempo che le due parti dedicano reciprocamente a conoscersi. Le banche vogliono servire troppe imprese e ciò implica troppo poco tempo per comprendere opportunità e rischi dei piccoli imprenditori. Ugualmente gli imprenditori “nascondono” la propria impresa pensando che meno si racconti alla banca e meno rischi si corrano. Né si preoccupano di conoscere cosa la banca pensi dell’azienda in relazione al rischio: ad esempio pochi sanno quale sia il rating attribuito e perché. Da questa non-comunicazione nascono grandi incomprensioni quando si verifica necessità di avere credito. Sul fronte delle banche è sempre meno accettabile, nel mercato attuale, che la risposta alla richiesta di credito si faccia attendere anche 3 o 4 mesi e possa risultare imprevedibilmente negativa, costringendo l’imprenditore a ricominciare un nuovo percorso con una seconda banca. Nessuna impresa oggi può permettersi di rispondere ai clienti con questi tempi e non si capisce perché la banca possa avere questo diritto senza provare imbarazzo. Infine, oggi c’è un problema di costo del credito, oltre che di disponibilità, ma questo richiede un capitolo a parte».

Perché le banche si sono fatte così restrittive nei confronti della piccola impresa?

«La spiegazione semplice è che la piccola impresa è intrinsecamente più rischiosa della media e grande impresa, anche se alcuni noti casi possono smentire la mia affermazione. Mediamente non c’è dubbio che la piccola impresa abbia scarsissima dotazione di capitale e molto debito (anche se garantito da fideiussioni personali o garanzie ipotecarie) con rapporti che facilmente possono arrivare a 1:10 o 1:15 quando i manuali di buona finanza vorrebbero un rapporto 1:1. Se una volta questa maggiore rischiosità era per la banca una scelta di opportunità, oggi invece le regole di vigilanza e i sistemi di rating costringono le banche a bruciare molto capitale sulle piccole imprese rischiose. Alla luce dei risultati dei bilanci 2011 e 2012 delle banche, molte delle quali registrano perdite proprio a causa del rischio e della insolvibilità delle imprese, è molto più facile comprendere perché una piccola impresa che consuma troppo capitale diventa un cliente sgradito. Il metodo usato dalle banche non è quello di dire “mi spiace, non posso avere un cliente in perdita”, ma quello di uscire gradualmente ritirando i fidi. Anche in questo caso molto poco trasparente. Se poi l’impresa arriva da due o tre anni consecutivi di perdite, si capisce che il problema diventa ancora più grave. Le banche non sono restrittive nei confronti della piccola impresa, in quanto piccola, ma solo perché la piccola impresa è più indebitata e più rischiosa. Le piccole imprese ben gestite e con buoni risultati non subiscono alcuna stretta».

Siamo in un momento storico in cui il “rischio” – non imprenditoriale ma quello bancario –viene evitato?

«Se parliamo di sistema bancario internazionale, la percezione del rischio di crisi e fallimenti è cresciuta enormemente dopo i fallimenti negli USA e i mega-salvataggi in Europa. Il sistema bancario italiano si è lungamente vantato di essere più sicuro e meno rischioso, perché ha fatto uso limitato della leva finanziaria e dei derivati, ma allo stesso tempo ha scoperto troppo tardi di essere vulnerabile su due altri fronti: la bassa redditività, frutto di scelte inefficienti, e il tasso di crescita delle sofferenze e degli incagli legato alla recessione economica italiana. Gli investitori oggi penalizzano i titoli delle banche italiane al punto che la loro capitalizzazione è di molto inferiore al valore di libro (la differenza tra attivo e passivo di bilancio). Il motivo è abbastanza semplice: si ritiene che l’attivo contenga rischi e potenziali nuove sofferenze che produrranno forti svalutazioni in futuro e questo è esattamente ciò che si è verificato nell’ultimo trimestre 2012. Circa il 70% delle sofferenze delle banche italiane è causato dalle imprese in crisi».

Lei sostiene che le imprese spesso considerano la banca come un “fornitore ad intermittenza”, quasi fosse un bancomat. Invece, come si dovrebbero comportare?

«Penso semplicemente che nessun bravo imprenditore abbia rapporti così poveri e infrequenti con un fornitore importante o strategico come invece fa con le sue tre o cinque banche. Perché? Non c’è un motivo logico e la rotazione del personale bancario è solo un facile alibi. Pianificare la crescita della propria azienda, o la ristrutturazione in caso di difficoltà, richiederebbe un diverso rapporto di collaborazione (come accade con taluni fornitori e taluni clienti) pur nel rispetto dei ruoli cliente-fornitore e senza dare eccessiva enfasi al concetto di “partnership” – che si verifica in casi molto rari – sbandierato nei convegni. Un buon rapporto con la banca prevede che almeno una volta all’anno ci si incontri per discutere i reciproci obiettivi e fabbisogni, per poi dare concretezza al piano quando vi sia necessità durante l’anno. Presentare in modo affrettato e approssimativo una richiesta di credito 10 giorni prima della necessità di finanza è un pessimo modo di lavorare con le banche e oggi non porta grandi risultati».

Dall’altro lato le banche dovrebbero dare il via ad una sorta di “artigianato bancario” per poter personalizzare l’offerta in base alle esigenze dei singoli imprenditori. E’ possibile? E se sì, come lo si può fare?
«Nella mia personale esperienza ciascun imprenditore, anche se molto piccolo, si sente diverso e unico e non apprezza di essere gestito in modo standardizzato con un conto corrente infilato in una finta scatola uguale per tutti. Invece, ama negoziare e percepire interesse nel proprio interlocutore, o ritenere di avere spuntato un trattamento “speciale”. Le banche, invece, hanno sempre tentato di “normalizzare” le piccole imprese artigiane con la convinzione di risparmiare costi a fronte di ricavi modesti. Non hanno fatto bene i conti con due nemici invisibili: il rischio e la multibancarizzazione. Del rischio abbiamo appena parlato. Se molte sofferenze sono figlie di scarsa conoscenza e interventi tardivi, allora la standardizzazione (che uccide contatti e conoscenza) è stata un errore. Costringere una piccola impresa ad avere almeno tre banche è il secondo errore, perché la torta dei profitti generati da finanziamenti e servizi bancari viene divisa in tre o cinque ed è troppo piccola, rispetto ai costi fissi, per ciascuna delle tre banche. Sin qui ho parlato degli errori, ma non di come si possa correggerli».

Se fosse un amministratore di banca, come si comporterebbe?

«Vorrei che i miei collaboratori passassero più tempo a conoscere e scegliere i miei piccoli clienti che a leggere circolari. Seguirei molti meno clienti, è vero, ma da quelli che mi scelgo vorrei tutti i margini (le fette della torta) insieme al rischio. Poi credo che il vecchio approccio del direttore di filiale anni ’60, che conosceva personalmente e finanziava le imprese della sua provincia, possa oggi essere replicato e innovato in chiave moderna sfruttando la ricchezza e il basso costo delle informazioni, dei cosiddetti “big data”. Identificare le filiere fornitori-clienti è un modo moderno per gestire e ridurre il rischio, ma pochissime banche lo stanno sperimentando. Le esigenze degli imprenditori non sono poi così diverse e ci sono state pochissime nuove soluzioni bancarie negli ultimi 10 anni. Personalizzare significa trasmettere a un imprenditore di avere capito i suoi problemi, e per fare questo è sufficiente sapere ascoltare. Poi le soluzioni si possono comporre in modo modulare e offrirle con un “effetto IKEA”: low-cost sì ma molto ricco in fatto di scelte, efficace e gradevole, anche se poi per risparmiare si deve passare tempo nel montaggio a casa. Nel voler essere un po’ artigiana la banca può usare tanta buona tecnologia via web, ma anche coinvolgimento dell’imprenditore in un percorso di bricolage finanziario che aumenti la sua capacità, oggi molto scarsa, di pianificazione finanziaria. Tutto però comincia dalla voglia di parlare e visitare un imprenditore nella sua piccola impresa. Senza questo non si va da nessuna parte».

Lei vanta una grossa esperienza sia nel mondo bancario che in quello della consulenza finanziaria. Quali sono i casi più comuni che “mettono in crisi” la piccola impresa nei confronti degli istituti di credito?

«Dopo sei anni di esperienza sul crinale della crisi, in quella terra di nessuno che sta tra le imprese e le banche, posso dire di aver maturato alcune, forti convinzioni. Le piccole imprese vanno in crisi con le banche molto tempo dopo essere entrate nella loro stessa crisi: di fatturato, di margini, di inefficienza e scarsa visibilità sul futuro. Alla fine di questa macerazione silenziosa, sopraggiunge la crisi finanziaria e di liquidità che crea la crisi nel rapporto con la banca. È la mancata percezione del rischio di peggioramento, e l’intervento sempre troppo ritardato, che crea i presupposti per la ritirata graduale o precipitosa della banca. Quindi apriamo un capitolo sulla scarsa capacità di pianificazione finanziaria, di previsione di scenari negativi e, bisogna dirlo, sulla solitudine dei piccoli imprenditori che non si risolve quasi mai con i pochi consigli del classico commercialista. La debolezza della piccola impresa trova raramente comprensione nella filiale della banca, dove i gradi di flessibilità decisionale sono azzerati quando l’impresa supera la riga gialla del rischio, con ritardi e sconfini. Dove c’è rischio elevato è pressoché impossibile fare nuovo credito e, anche se fosse possibile, aggiungere altro debito non è quasi mai la ricetta curativa. Per questo motivo la soluzione sta nel sensibilizzare gli imprenditori sui rischi e sui vantaggi di interventi preventivi. Questo è uno dei ruoli che competono alle associazioni, purtroppo giunte troppo tardi a capirne l’importanza. Forse speravano, come altri, che la crisi sarebbe durata molto meno, così come in passato».

Un nuovo rapporto-dialogo tra impresa e banca: come lo si può costruire? E su quali basi?

«Si parla di nuovo dialogo da più di dieci anni, ma le proposte sono sempre state troppo generiche e poco concrete: trasparenza reciproca e comprensione non hanno avuto applicazione pratica. Per offrire qualche ricetta parto dal presupposto che una piccola impresa non avrà mai la forza economica per dotarsi di competenze specialistiche all’interno nelle aree critiche: il marketing, la finanza, il controllo di gestione, la logistica per citare le più carenti. La banca evidentemente non può supplire a queste carenze, ma ne subisce l’effetto sul profilo di rischio. Per questo sono convinto che i piccoli imprenditori, oltre a pensare ossessivamente alla crescita dimensionale –anche a costo di sacrificare il controllo del 100% – debbano imparare a “sfruttare” un ampio bacino di buona consulenza, oggi disponibile anche a costi abbordabili. Presentarsi in banca con tre pagine di strategia e tre pagine di piani finanziari, raccontare i propri progetti con convinzione e passione è il modo migliore per convincere la banca che ci sono progetti e idee chiare su cui fare affidamento per concedere credito e ricevere rimborsi puntuali. I bilanci passati sono sempre meno importanti rispetto a un buon marchio, una quota di mercato anche di nicchia e un cashflow basato su ipotesi serie. Il problema è che i piccoli imprenditori hanno la tendenza a scegliere in modo approssimativo i propri consulenti, oppure a tenerli fuori dalla porta aprioristicamente. Credo che le banche si siano scordate di spiegare come viene selezionato un buon credito da uno cattivo e grazie a quali informazioni. Potrebbero poi agevolare la scelta dei buoni consulenti con un processo trasparente di selezione, che sfuggendo a logiche collusive offra garanzie di qualità ai propri clienti. Oggi, questo è un passaggio necessario perché la consulenza di bassa qualità è purtroppo molto frequente e ha creato non pochi danni alle imprese ma anche alle banche. Mi riferisco ad esempio alle critiche sorte di recente sull’abuso dell’istituto del concordato da parte di imprenditori spinti da professionisti senza molti scrupoli. Se vuole un’altra proposta personale, fuori dagli schemi, ne indico subito una: perché le banche non pensano di mandare i funzionari (quadri) di banca che vogliono seguire le imprese per uno o due mesi presso una piccola impresa ad aiutare l’imprenditore e capire come vive la sua giornata? Sarebbe il migliore dei corsi di formazione e renderebbe più costruttivo il dialogo, perché ciascuno capirebbe meglio il punto di vista dell’altro».

Secondo lei, cosa manca alla piccola impresa per farsi capire dalla banca?

«Partiamo dal fatto che oggi, una piccola impresa, è confusa nell’agenda degli impegni del suo referente bancario in filiale in mezzo ad altre 200-250 partite IVA. Quindi il funzionario di banca ha poco meno di un giorno all’anno da dedicare a quella piccola impresa, forse mezza giornata togliendo tutte le altre incombenze, le riunioni e i corsi di formazione. Cosa pensa che possa capire della vita di un’impresa in mezza giornata all’anno? Perciò il problema è rovesciato: è la piccola impresa che deve capire come funziona la banca e deve aiutare il suo referente a lavorare meglio, sia sotto il profilo della qualità delle informazioni che gli trasmette, che sulla conoscenza dei problemi. Per l’informazione non basta inviare il bilancio una volta all’anno, ma due pagine di spiegazioni sui successi ottenuti, sui punti di forza, sulle prospettive colorano in senso positivo anche un utile risicato. Sulla conoscenza è l’imprenditore che deve invitare il suo referente a prendere un caffè in azienda e mostrargli i suoi prodotti, le macchine che ha finanziato, gli operai a cui ha aperto conti correnti. Cose semplici».

Lei sostiene che la domanda di credito c’è, per il circolante e per ristrutturare il debito. Oggi assicurare il circolante assomiglia ad un investimento, considerato il fatto che a monte la Pubblica Amministrazione non paga i suoi debiti. È questo il vero problema per l’impresa?

«Lo dicono tutte le statistiche pubblicate periodicamente dalla Banca d’Italia e dalla Bce (Banca centrale europea ndr). Il circolante è un investimento importante, tanto quanto i macchinari; è la misura della fiducia data ai clienti e ricevuta dai fornitori. Purtroppo in Italia è lievitato per fattori distorti: uno Stato che non paga 90-100 miliardi, e un sistema diffuso di imprenditori scorretti che non pagano mai le fatture alla scadenza anche quando potrebbero e nel quale conta la legge del più grande. Questo è credito malato e sbagliato perché non produce nulla e costringe le banche a tappare le falle altrui. Chi non incassa non paga, e queste onde concentriche stanno toccando tutti e stanno spingendo troppe imprese a insolvenza irreversibile. Assurdo che sia stato compreso solo ora dopo anni. Se quei 100 miliardi entrassero di nuovo nel circolo allora avremmo una rigenerazione più pulita del credito alle imprese, ma il nuovo credito andrebbe comunque solo alle imprese con più patrimonio. Quindi il problema delle imprese troppo indebitate e senza profitti rimane sul tavolo. Cosa vogliamo fare con queste imprese?».

Il modello della piccola impresa sarà il modello imprenditoriale del futuro?

«È facile, ma anche semplicistico, rispondere con un “no”. Quindi affermare che il modello della micro-impresa artigianale è superato perché piccolo non è più bello e non aiuta a competere sui mercati con imprese più muscolose. E’ tutto vero, ma poiché partiamo da una base produttiva in cui il 95% dei soggetti sono piccoli, e alquanto restii a mettersi insieme, prendiamone atto e troviamo un modello di transizione, il nuovo modello di miracolo italiano per le piccole imprese. Un modello che oggi non è ancora nato, se non in casi sporadici».

Quale potrebbe essere questo modello?

«Ad oggi vedo una piccola impresa a perimetro variabile, capace di incorporare competenze (know-how) avanzate “affittandole” dall’esterno con formule a basso costo o pay-per-use, in un mercato del lavoro qualificato che ha eccesso di offerta. Il lavoro sugli asset intangibili (i marchi, i brevetti, il web-marketing) e sulle frontiere della crescita (export e internazionalizzazione, tecnologie, informatica) non può essere fatto dentro l’azienda, ma con risorse esterne, che vanno cablate con velocità, qualità e coerenza. Anche l’università potrebbe fare molto di più. Solo con questo assetto, da incursore leggero e veloce, le piccole imprese possono dare fastidio ai colossi o entrare a titolo qualificato nelle loro filiere, non più da povero terzista ma da specialista agile: e questa é stata sempre una delle caratteristiche vincenti dell’impresa italiana. In questo gioco di squadra c’è un ruolo enorme anche per le banche, ma solo per quelle innovative, coraggiose, capaci di vedere l’opportunità che c’è nello stabilire queste connessioni e facilitarle non solo con il credito, cambiando radicalmente il modo di porsi sul mercato».

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Pubblicato il 10 Aprile 2013
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