Quel grande Varese che volò nel paradiso del pallone

Nel '64 la squadra di calcio cittadina arrivò per la prima volta in Serie A. Franco Giannantoni, giornalista e storico, ci racconta chi furono gli uomini che fecero l'impresa

(d. f.) Cinquant’anni fa, nella stagione 1963/64, Varese e il Varese vissero i primi momenti di gloria a livello nazionale del calcio, grazie alla prima, storica promozione in Serie A della squadra biancorossa.
VareseNews ha già dato il via a una serie di articoli storici che ricordano quell’evento, indimenticabile per chi lo visse ma poco conosciuto dai tifosi attuali.
Oggi per parlare di quella squadra che portò Varese nel paradiso del calcio italiano e che affrontò per la prima volta il massimo campionato ci affidiamo alla penna di Franco Giannantoni (foto a lato), giornalista e storico del calcio cittadino coinvolto per l’occasione da Pier Fausto Vedani, "motore" della nostra iniziativa. Buona lettura.

Ecco gli occhi colore azzurro cielo di Luigi Ossola, il "Cicci", classe 1938, mio compagno di classe e di scuola sino alla maturità, il "Cicci" che, invidia di tutti noi ragazzini dell’epoca, con la biciclettina da corsa marca "Bianchi" comperata dal "Gusto" Zanzi, veniva da Varese sino a Casbeno nella villa di mio nonno, a studiare e a giocare e quando ripartiva a sera, aveva infilato nel portaborraccia un mazzo di zinie multicolorate per la mamma e, in un sacchetto, le verdure frutto degli orti.
Quel volto inebriato dal successo, l’ho ben presente nel ricordo di quella corsa sfrenata che portò il Varese Football Club nel 1964 in serie A (con Cagliari e Foggia) sotto la guida di Giovanni Borghi e Cesare Casati, presidente e vice presidente, di Antonio Busini e Ettore Puricelli, direttore tecnico ed allenatore. Un quartetto irripetibile tanto era amalgamato, con un filo indecifrabile di spregiudicatezza.

(Giovanni Borghi e Cesare Casati)

La figura del "capitano" Ossola portata a spalla in giro sulla pista di cemento come una Madonna pellegrina, rivolta alla folla che aveva riempito come non mai lo stadio intitolato al fratello Franco, asso del Torino caduto a Superga, era l’emblema della squadra che, in un paio d’anni, aveva bruciato le tappe salendo dalla "C" alla massima serie.
Quella scena, a metà strada fra il delirio incontrollato dei tifosi ripagati per certi versi dalle delusioni esistenziali e una sagra paesana, è difficile da rimuovere. Un fenomeno in fondo banale ma che ha lasciato il segno. Sento ancora una intensa emozione per il vissuto di quel tempo libero, frutto della giovinezza perduta e della vecchiaia incalzante. C’erano in quelle ore, non solo a Masnago ma in tutta la città, cartelli variopinti, gigantografie coi volti dei calciatori e dei dirigenti issate su vetuste vetture, bande dell’intero circondario (quella di Capolago in primis), oceani di stelle filanti e di coriandoli, c’era imponente il Fogola, un simpatico omaccione, fedelissimo della squadra (in una nota fotografia del vittorioso campionato del ’42 che portò il Varese in "B" è il terzo da sinistra dopo i calciatori Garavelli e Borellini con all’estrema destra i giovanissimi supertifosi Gian Mario Maletto, futuro giornalista e Arturo Redaelli, futuro architetto) che con una mano riceveva il regolare "deca" dal Cumenda come mancia (ho presente il gesto della mano che si infilava nelle tasche dei pantoloni e il bigliettone che scivolava fra le dita del destinatario) e poi, come fosse un disco, partiva con un acuto baritonale «Varese!» che non finiva mai scuotendo i timpani e dando la scossa all’intera tribuna centrale peraltro già elettrizzata la sua parte.
Pierfausto Vedani, gran cerimoniere di questi avvenimenti (per fortuna che esiste, un po’ come lo era stato "Claudio" Macchi per la Resistenza), mi ha invitato a ricordare qualcosa di quel tempo lontano e io, ubbidendo, mi sono affidato agli sprazzi della mia memoria e al mio (e di Ettore Mocchetti) «50 anni di calcio a Varese», un libro uscito nel 1966 e presentato negli eleganti spazi di via Robbioni 8 del libraio Giampaolo Swich, al cospetto del mondo sportivo cittadino. Un libro dal taglio singolare (una sorta di rettangolo all’insu), in cui raccontavamo il primo mezzo secolo di vita di una squadra partita nel 1910 in bianco viola, poi rivestita del biancorosso, che aveva percorso un cammino sempre altalenante fra "B", "C" e l’Eccellenza con qualche scivolone in Quarta Serie e in Promozione calcando i campi delle nostra provincia.
Quel libro (da cui abbiamo tratto le foto per questo articolo ndr) ha oggi per me il sapore di un vangelo, una ciambella di salvataggio. Ci sono tabelline, classifiche, nomi e cognomi, statistiche, quadri dirigenziali. Soprattutto fotografie scovate allora con fatica e una buona dose di fortuna in ogni dove, scatoloni dimenticati nei solai di casa, fondi di giornali, album ben conservati nell’archivio del Caffè Firenze, un locale alla buona che fungeva da ritrovo quotidiano di calciatori e appassionati (ora al suo posto ci sono le orrende e ordinarie Corti). Sfoglio il libro, fortemente voluto con la passione che lo contraddistingueva da Mario Lodi, il mio stimato direttore di "Prealpina", un passato da cronista sportivo e autore della prefazione e vado all’immagine dello squadrone che debuttò in "A" finendo nel campionato all’undicesimo posto con 30 punti, 8 vittorie, 14 pareggi, 12 sconfitte, 28 reti fatte e 37 subite. Lo scudetto lo vinse l’Inter con 54 punti.
 

(Il primo Varese in Serie A)

Luigi "Cicci" Ossola è il primo in piedi a sinistra. Lo sguardo pare distolto in quel momento da un richiamo improvviso, un lampo del sole o forse la difficoltà, lui così riservato, di fissare l’obiettivo del reporter di turno, il Faoro, il Broggini, il Cattelan, l’Oprandi. Alle spalle Ossola aveva anni di basket alla "Robur et Fides" (gran tiratore), con Vaccaro, Casagrande, Tettamanti, Tozzini, Baroni, Asti. Poi aveva puntato sul calcio (sarebbe andato dopo il Varese alla Roma e al Mantova) e allora era venuto avanti l’Aldo a prenderne il posto. Ora i ricordi con tale supporto sono puntuali: ecco lo Spelta, venuto dal Fanfulla, un’ala veloce con la mania del dribbling che spesso gli riusciva. Traspedini era il centravanti, si diceva allora, di sfondamento, giunto dal Simmenthal Monza, un panzer che abbatteva con la sua potenza ogni difesa soprattutto con magistrali colpi di testa, tecnica affinata con Puricelli, l’allenatore, "testina d’oro del Bologna che il mondo tremare fa". Traspedini già da un anno a Varese aveva fatto 13 gols, 9 lo Spelta. Una gran coppia. Nelle storica foto accanto a lui, Carletto Soldo, un duro, al centro della difesa, poi Cucchi la mezzala, uno sgobbone. Una sorta di trattore su e giù per il campo per novanta minuti, poi il tedesco Szymamiak, uomo di raccordo preso dall’Inter. In ginocchio nella storica immagine, da sinistra, Marcolini, un difensore che non faceva sconti a nessuno, Peo Maroso, lo svedese Anderson che sembrava danzasse sul terreno con le sue movenze eleganti, il portiere Miniussi (alternatosi con il flemmatico Lonardi) e il mediano Giancarlo Beltrami (poi colonna del Milan). La rosa era completata dall’ala Vetrano, dalla mezzala Volpato, dai terzini Rondadini e Burelli.
Maroso era un giovanotto maturo, leggermente stempiato, dal sorriso buono. Era giunto a Varese da Ivrea l’anno prima con il centravanti Duvina e il portiere Biggi. Dei tre, sulla carta, pareva il meno titolato. Il classico osso da brodo che accompagna il lesso. Alle spalle aveva una dura esperienza di vita. Qualcuno, quando già tirava calci al Torino, la squadra del fratello Virgilio scomparso a Superga, gli aveva diagnosticato un malanno al cuore. Dovette fermarsi, andare in fabbrica alla Fiat per guadagnarsi da vivere. Una maledizione. Poi, come spesso capita nella vita, la ruota girò a suo favore. La malattia non c’era. Aveva ripreso a giocare. A Varese era giunto coi piedi per terra e una forte passione. Divenne un campione. Ricordo i duelli con Jair, l’ala brasiliana del’Inter. Epici. Maroso era uno sportivo leale e un uomo saggio. Ossola, il capitano, era andato a trattare con Borghi e Casati i premi partita. Spuntò una cifra che i giocatori respinsero come inadeguata. Insorse Maroso che non aveva mai visto tanti soldi così in tutta la vita. Pose il problema sul tappeto, fece ragionare i compagni, l’accordo fu raggiunto. Maroso, l’operaio-calciatore, aveva vinto la sua battaglia di principio.

(La festa dei tifosi per la promozione)
 

Mancavano in quella rosa di nomi, "Pippo" Marchioro e Mario Pasquina. Per me, giovane cronista che aveva seguito le loro imprese, fu un dispiacere. Lo fu credo per molti. Se il Varese aveva raggiunto la "A" fu soprattutto per merito loro. Ogni calcio di punizione era un gol. Marchioro allungava la palla a Pasquina che bucava la rete. Pasquina, veronese, nei due campionati aveva fatto 34 centri.
Si usa dire in modo retorico che il Varese fosse una famiglia. Può darsi. A me pareva più un gruppo ben organizzato. Borghi e Casati – era un rito- amavano attraversare il campo prima di ogni partita. Si mostravano al pubblico. Piovevano gli applausi. Poi i due salivano in tribuna. Ai lati come bei soldatini ad attenderli c’erano i dirigenti, quasi tutti legati al Varese da decenni: Eligio Caronni, ex presidente e manager dell’Aermacchi che aveva rilanciato alla grande dopo la guerra; Piero Pastorino, industriale di Gemonio (suocero di Antono Ronconi, stopper indimenticabile del Varese anni ’50), Cesare Cranna, imprenditore dei trasporti; il notaio Luigi Zanzi, Giovanni Invernici assicuratore, il dottor Emilio Pisoni, medico sociale e unico calciatore del Varese del 1910 ancora in vita e tanti altri.
Busini, il direttore tecnico, conosceva gli avversari come le sue tasche. Vestiva dall’autunno a primavera un paletot cammello con cintura in vita. Un vecchio marpione (si era fatto le ossa al Milan) che aveva messo la sua esperienza al servizio del progetto di Borghi il quale, dopo la pallacanestro, il ciclismo, la boxe, il canottaggio, avrebbe voluto sfondare nel calcio. Ettore Puricelli era un uomo estroso, figlio della sua terra. Nato a Montevideo nel 1916, era giunto in Italia nel 1937, a 21 anni. A Bologna aveva fatto sfracelli. Dopo la guerra era passato al Milan dove nel 1954 diventò allenatore. Per festeggiare nel 1962-63 la vittoria nel campionato di "C" con 50 punti (secondo il Novara con 47, terzo il Savona con 45) con un bel paio di forbici tranciò le cravatte a tutti i commensali che stavano festeggiando il meritato successo! Lo aveva fatto anche a Sanremo dove Borghi per premiare i suoi ragazzi diede loro qualche fiches per giocare al Casinò. Gli unici a non rischiare furono Maroso e Lonardi. Furono i più saggi.

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Pubblicato il 28 Gennaio 2014
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