“Grazie Gianni, maestro di vita”

Asti ha lasciato grandi ricordi alle persone che hanno collaborato e sono cresciute al suo fianco. Garbosi, Ossola, Corsolini e Rovera ricordano il suo smisurato amore per la Robur

«Ciao Gianni, grazie di tutto» si legge sul blog della Robur et Fides nel giorno della morte di coach Gianni Asti, 79 anni, scomparso a Milano dopo un lungo ricovero dovuto principalmente a problemi cardiaci. Ma il «grazie» che si legge, più di altre volte, non è una parola di circostanza. Con Asti hanno lavorato e sono cresciute generazioni di giocatori, allenatori e dirigenti; alcuni sono rimasti nel mondo Robur, altri si sono trasferiti altrove e proseguono un lavoro iniziato con i preziosi consigli dell’uomo che riuscì anche a portare in Serie A la società più antica di Varese.
Ai ricordi istituzionali (sono subito arrivate le condoglianze della Fip ma anche della Pallacanestro Varese) e a quelli di chi lo ha conosciuto bene – di seguito ci sono quattro testimonianze sentite – la nostra redazione sportiva può solo aggiungere un invito. La città con le sue istituzioni ricordi Gianni Asti, senza manifestazioni super ma con semplicità, magari con un momento di riflessione dedicato a chi ha reso un servizio autentico non solo alla bella comunità dello sport. Onorare così Asti sarà anche premiare la storia e la tradizione di una società che ha costruito anche cittadini esemplari.

GARBOSI: AMORE PER LA ROBUR – «Gianni è sempre stata una presenza costante per tutti coloro che si sono trovati a lavorare, prima o poi, in via Marzorati – spiega Fabrizo Garbosi, figlio d’arte che ora allena a Gazzada ma che proviene da una lunga trafila roburina – È stato un grande quando allenava la prima squadra ma anche dopo, quando progressivamente ha ridotto l’impegno sul campo ma non la costanza e l’amore che aveva per la società. Così, accadeva spesso di vederlo sulle tribune durante gli allenamenti o le partite delle giovanili: osservava, prendeva nota, scrutava i singoli ragazzi e poi, a tempo debito, dava consigli per migliorare il loro gioco o regalava un’opinione a istruttori e allenatori. Amava la Robur e il basket a dismisura, e paradossalmente quando iniziò ad avere problemi seri di salute elevò ancora di più la sua attenzione. Dopo il primo ricovero si è messo a contare le partite che vedeva, cercava di tenersi ancora più al passo con l’evoluzione del gioco seguendo gli allenamenti a Varese, quando poteva, o a Milano quando non riusciva salire quassù e cioè due o tre volte al mese. Giornate in cui restava a lungo e cercava di concentrare tutto il suo operato, dispensando poi consigli utili a tutti».

OSSOLA: UNA GRANDE GUIDA – Asti però è stato un grande quando ancora Fabrizio era una bambino. Tempi lontani ma non dimenticati come dimostrano le parole di un’altra figura di primissimo piano della storia Robur, Cicci Ossola. «Sono andato a trovarlo pochi giorni fa, gli amici gli sono stati vicini sempre e per lui gli amici erano quelli di sempre: giocatori, allenatori e dirigenti della squadra alla quale ha dedicato l’intera vita, sin da giovane, da quando scendeva in campo. Noi Ossola abbiamo giocato con lui, io per tre anni, Aldo per uno. È sempre stato nel nostro cuore non solo come compagno ma anche come maestro, pure di vita nell’accettare e trasmettere valori che andavano oltre il campo di gioco e resistevano al tempo. I valori ai quali si riferivano i dirigenti: l’importanza dell’essere innanzitutto portatori di esempio ma in silenzio, nella pratica della vita badare al sodo, alla semplicità. Il modo di essere Robur non ha mai guardato alla platea, i risultati sportivi sono stati numerosi e bellissimi, ma considerati solo e sempre un passo del cammino umano. Un cammino che a tutti coloro ch l’hanno fatto lascia ricordi indelebili e la soddisfazione del dovere compiuto. Gianni è stato una grande guida, sarà ancora e sempre con noi».

CORSOLINI: IL BASKET MAESTRO DI VITA – Un collega dei tempi antichi di Asti, è Gianni Corsolini, un altro storico allenatore e dirigente con una visione di basket e di vita simile al "nume tutelare" della Robur. «Siamo stati come due gemelli nella concezione dello sport, perché vedevamo la pallacanestro come strumento di crescita e di formazione alla vita accanto a quella di atleti. Allenatori di serie A al pomeriggio, alla mattina istruttori dei giovanissimi e se occorreva ci si trovava fianco a fianco anche a spalare la neve del campetto di via san Francesco. La morte di Gianni mi colpisce duramente. A fine novembre non ha potuto presenziare alla manifestazione in suo onore perché stava già male, ma la Robur dimostrò quanto gli volesse bene: venne anche Dante Trombetta, sarebbe stata la sua ultima uscita pubblica. Che bella gente il clan Robur, che uomini. E che amico io ho perso!».

ROVERA: QUELL’ABBRACCIO A BORMIO – Oggi il capitano in campo della Coelsanus-Robur è Martino Rovera, 31 anni, che in carriera ha vestito solo la maglia gialloblu e che affianca alle presenze da giocatore un’attività da istruttore per i più piccoli. «Non ci sono neppure le parole per descrivere il suo attaccamento alla Robur e al nostro sport. Tra me e lui ci sono tanti anni di distanza ma un rapporto umano fortissimo, che va ben oltre il basket: ha iniziato a seguirmi fin dalle giovanili perché per Gianni il bene dei ragazzi del vivaio veniva prima di tutto. C’era a Bormio quando vincemmo lo scudetto con il gruppo ’82 e fu una delle prime persone che abbracciai. E poi mi ricordo il suo taccuino su cui annotava un sacco di appunti quando veniva a seguire gli allenamenti di tutte le squadre. Prendeva nota e poi avvicinava noi ragazzi, uno per volta, per indicare gli errori commessi e consigliare come migliorare i difetti; ti parlava in modo paterno, ma lo stavi a sentire perché aveva un modo di fare che sapeva rapirti».

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Pubblicato il 14 Febbraio 2014
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