“I frontalieri rimarranno, ma il mercato del lavoro cambierà”

Remigio Ratti, economista e docente svizzero, ha di recente presentato uno studio sugli scenari futuri dell'area insubrica: tra cui c'è anche il Gect, un modello di cooperazione che già esiste in altre parti d'Italia

Che cosa succederà ai rapporti tra il Canton Ticino e le province di confine dopo il risultato della votazione federale svizzera di domenica? E i nostri frontalieri devono temere per il proprio posto di lavoro? Lo abbiamo chiesto a Remigio Ratti, economista svizzero, docente universitario ed ex direttore generale della Radiotelevisione svizzera italiana, che da anni studia le relazioni transfrontaliere e lo sviluppo locale dei territori dell’area insubrica.

«Partiamo da una premessa: i contingenti non partono domani mattina e i frontalieri in Ticino rimangono. Quindi nessuno perderà il posto di lavoro. È stato previsto un termine di tre anni per regolare questa materia e i tetti saranno individuati sulla base delle esigenze del sistema economico di ogni cantone».

Qualcosa però cambierà?
«Si, potrebbe aprirsi in futuro una sorta di competizione tra i cantoni per accaparrarsi i contingenti quando sarà stabilito un numero totale di frontalieri da ammettere nella Confederazione. E se ci saranno dei buoni economisti – questo vale anche per il Ticino – è prevedibile che si cercherà di garantire più manodopera ai settori più promettenti in termini di valore aggiunto. Cambierà qualcosa probabilmente nei settori più deboli. In altre parole: il sistema dei contingenti porterà a fare delle scelte strategiche. Nel prossimo futuro potremmo quindi vedere un incremento di lavoratori frontalieri in alcuni settori e una diminuzione in altri».

Quello svizzero è un voto razzista?
«No, non è vero e l’analisi del voto lo dimostra. Innanzi tutto l’elettorato è spaccato a metà, non tutti hanno votato per l’approvazione. Il voto inoltre è diverso in base ai territori e tra città e periferia. Le grandi città hanno respinto l’iniziativa e questo è rilevante. Quella del Ticino è una situazione di disagio che prosegue da tempo. Il Ticino è un caso a parte e una parte della politica ha pompato il malcontento della popolazione».

Il risultato della votazione federale modificherà le relazioni di confine?
«Non credo proprio. Anche se fosse passato il "no", in Ticino sarebbero rimasti i problemi strutturali di sempre. Ciò che è determinante è la visione della governanza territoriale. Pensiamo al caso dell’Arcisate Stabio, dimenticando per un momento gli intoppi che hanno bloccato il cantiere. Lì c’è stato un progetto, una visione internazionale e un’opera importante è stata pensata insieme. Ora però dobbiamo fare i conti con i problemi che ha avuto l’Italia e la delusione del Ticino che contava di arrivare a Expo con quell’infrastruttura pronta. Ma possiamo anche fare l’esempio della formazione. I progetti in comune ci sono ma si può fare un notevole passo avanti. Pensiamo anche al settore del credito, le potenzialità sono enormi per i soggetti di entrambi i territori».

Di recente, insieme al professor Alberto Bramanti, ha presentato uno studio sugli scenari dell’area insubrica. Tra questi ha individuato diverse forme di cooperazione territoriale. All’indomani della consultazione elvetica, il presidente della Lombardia, Roberto Maroni, ha proposto l’istituzione di una zona franca al confine, cosa ne pensa?

«Nello studio abbiamo illustrato diversi possibili scenari, tra cui anche l’avvio di una cooperazione molto più strutturata tra il Canton Ticino e le province italiane di frontiera. Non dobbiamo inventare molto, esistono già degli strumenti che permettono di inquadrare questi rapporti territoriali. Noi abbiamo individuato l’ipotesi del Gect (Gruppo europeo di cooperazione territoriale) sul modello di Trentino, Alto Adige e Tirolo, già previsto e disciplinato dalle norme dell’Unione Europea».

Che cosa dovrebbero fare i territori coinvolti?
«Innanzi tutto ottimizzare quello che già esiste. Penso alla Regio Insubrica (la comunità di lavoro nata vent’anni fa che comprende Ticino, Varese, Como, Lecco e il Vco), un contenitore che rischia di andare perduto. Potrebbe essere trasformato in un ente di diritto pubblico multilivello con poteri più incisivi. Aprirei questo ente ai sindaci e ai livelli superiori italiani, non so se le province rimarranno, e alle istituzioni ticinesi. Come i modelli di successo, nello sviluppo locale, occorre però che questo cambiamento parta dal basso e coinvolga anche i cittadini. Quindi ben vengano, accanto alle iniziative economiche, anche quelle culturali e sociali».

Che cosa ha impedito di realizzare questa integrazione fino ad oggi?
«Da una parte l’incertezza e le difficoltà della politica italiana non hanno aiutato, dall’altra non si è pensato realmente al benessere di entrambi i territori. Ognuno ha cercato di ottenere benefici o limitare i propri problemi. È per questo che parlo del ruolo strategico della governanza, se si parte da una visione transfrontaliera e se si considerano gli interessi di entrambi i risultati arriveranno».

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Pubblicato il 11 Febbraio 2014
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