Gianfranco Brebbia, il figlio dimenticato da Varese

Un'intera giornata all'Università dell'Insubria per il secondo convegno dedicato al filmaker varesino scomparso nel 1974

Gianfranco Brebbia

«Il sindaco Fontana ci ha ricordato che Gianfranco Brebbia è stato un figlio dimenticato da Varese, ma non ci ha spiegato perché è stato dimenticato». Fabio Minazzi, professore di filosofia della scienza all’Università dell’Insubria,  conclude così il suo intervento al secondo convegno dedicato al filmaker varesino, scomparso improvvisamente nel 1974 all’età di cinquant’anni.

A ricordare Brebbia ci ha pensato dunque l’università dell’Insubria, in collaborazione con il Centro internazionale insubrico “Carlo Cattaneo” e “Giulio Preti” e il Centro internazionale cinema sperimentale “Gianfranco Brebbia”, che ha organizzato un’intera giornata con l’intervento di esperti – non solo di cinema –  per ripercorrere l’opera del filmaker.

Minazzi ha sottolineato l’importanza «dell’uso del mezzo tecnologico» da parte di Brebbia. «Il film nasce dalla tecnica – ha detto il docente dell’Insubria – che è così pervasiva da diventare parte costitutiva del fare artistico». Per Brebbia filmare equivaleva a «mitragliare la realtà», l’unico modo per l’artista di entrare nelle crepe e nelle contraddizioni del reale.

La cultura underground a cui faceva riferimento Brebbia è un dato che emerge dalle sue stesse parole riportate nel libro “Filmavo da indipendente, solo e contro tutti“(Mimesis), curato dalla figlia Giovanna Brebbia, dal critico cinematografico Mauro Gervasini e dal professor Minazzi. Il filmaker varesino e il mezzo tecnologico erano una cosa sola. L’oggetto tecnologico diventava una protesi, un’estensione necessaria del corpo. E con la visionarietà dell’artista negli anni ’60 Brebbia affermava che la cinecamera un giorno sarebbe stata usata «come una penna bic». Previsione che si è avverata con gli smartphone.

Gianfranco Brebbia
Matteo Pavesi

Secondo Matteo Pavesi, direttore della Fondazione cineteca italiana, ciò che contraddistingueva Brebbia nel panorama culturale, a cavallo tra gli anni sessanta e settanta,  era la sua spiccata apertura. La notevole produzione in superotto dell’artista varesino da una parte era pura sperimentazione,  dall’altra era grande tensione per la testimonianza del suo tempo. «Questa mattina abbiamo visto “Bet” un lavoro sperimentale – ha detto Pavesi -. In realtà nella sua produzione ci sono momenti dedicati alle performance di altri artisti, come Munari, e momenti dedicati alla sua vita famigliare. Brebbia era molto aperto, poco autocentrato, cercava contatti con il mondo dell’arte e la sua contemporaneità, a differenza di altri artisti che usavano lo stesso strumento ma in preda al proprio narcisismo. Brebbia aveva invece un’attenzione ossessionante al suo lavoro, soprattutto quando se ne doveva separare».

Come ha ricordato Antonio Orecchia, ricercatore di storia contemporanea all’Università dell’Insubria, tra il 1960 e il 1970 erano le tensioni politiche e la contestazione del vecchio ordine sociale a creare le crepe della realtà. E forse quel senso di solitudine richiamato dal titolo del libro era la parte di Brebbia che non era in sintonia con la realtà e quindi con la sua città.

«La presenza dell’università – ha concluso Minazzi – sta cambiando questo rapporto con Varese perché è un laboratorio di pensiero. E forse la risposta alla domanda perché Brebbia sia stato dimenticato la fornisce Woody Guthrie (cantautore americano, ndr) con “This machine kills fascists”».

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Pubblicato il 22 Aprile 2016
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