La laurea non piace più: colpa dei ragazzi o dell’università?

L'Italia fanalino di coda nell'istruzione accademica. Per la prima volta dal '45 non cresce il numero di neo laureati. Il Rettore della Liuc Visconti invita a riflettere sulle possibili cause e sulle soluzioni

studenti liuc matricole 2013

C’era un tempo in cui la laurea veniva considerata uno “status symbol”. Avere il “dr” prima del cognome contava. Sembra che quel tempo sia scomparso, cancellato da una filosofia di vita spiccia, fondata sulla velocità e sul risultato facile. L’allarme arriva dai dati della Commissione europea: nel 2013 l’Italia ha registrato una delle quote d’abbandono universitario tra le più alte d’Europa (45%) e il più basso tasso di laureati tra i trentenni.

Il titolo non piace più?  Non serve? Se si guarda agli stipendi del primo impiego, il livellamento al ribasso dei salari va a consolidare l’idea che il percorso accademico sia per lo più una perdita di tempo, sostituibile con esperienze di lavoro, meglio se all’estero.

Per la prima volta, dal 1945, c’è una frenata nella crescita del numero di laureati. Un segno sicuramente allarmante per l’Italia che rimane fanalino di coda di un sistema globale che, invece, continua a investire sulla cultura accademica.

Federico Visconti, magnifico Rettore della Liuc – Università Cattaneo di Castellanza, analizza la situazione:
«Non fermiamoci al dato grezzo con letture semplicistiche e banalizzanti. Il fenomeno va letto con la dovuta attenzione perché le variabili coinvolte sono tante e implica un cambiamento sociale e culturale che va dominato e non più subito. L’istruzione è un investimento: occorre capire chi e perché continua a crederci e chi ha perso la fiducia»

Non sarà che il sistema formativo rimane sempre dietro all’innovazione che si registra nel mondo del lavoro?
« Ricordiamoci che il professore universitario non è in condizione di stare al passo con il veloce mondo delle imprese, ma è colui che mette in fila conoscenze e strumenti interpretativi per codificare i grandi cambiamenti sociali economici e tecnologici. Il mondo del lavoro corre veloce e quello universitario indubbiamente è più lento: c’è poi un problema di contenuti che sono vincolati da scelte ministeriali. Se anche si riuscisse a innovare nei piani didattici, qualche ostacolo può derivare dai docenti: c’è quello flessibile che reagisce tempestivamente e c’è quello, invece, che fa più fatica perché convinto della sua esperienza consolidata. Diciamo che esistono realtà accademiche snelle e giovani dove la novità trova una via facilitata e chi arranca a causa delle sue dimensioni mastodontiche».

A distanza di anni dalla grande innovazione del mondo accademico, con gli atenei diffusi e una pluralità di corsi sotto casa, possiamo dire che il sistema si è inceppato e ha perso il suo appeal?
« Devo riconoscere che quell’apertura, che io oggi posso solo lodare perché sono uno dei tanti che ha beneficiato della crescita, oggi segna i limiti dell’eccessiva diffusione. I ragazzi sono tentati di restare sotto casa e adattano le proprie esigenze alle comodità. Si è perso, quindi, il senso della fatica, dell’investimento in termini di costi e impegno per ottenere un titolo di valore. Si crede che la via più breve sia la più semplice, ma per arrivare a raggiungere un obiettivo, un percorso di carriera in un lavoro che piace e appassiona, occorre “lavorare” ossia studiare, fare fatica, impegnarsi a fondo per acquisire una conoscenza non sommaria bensì approfondita, di valore. Laurearsi non è un vuoto a perdere. Il Paese ha bisogno di laureati. Dobbiamo pensare a strumenti nuovi».

E quali sarebbero questi strumenti?
« Ci sono atenei che viaggiano velocemente e altri che rallentano, soffocati dalla carenza di fondi e dalla mancanza di idee e strategie alternative. Chi è riuscito a intercettare per tempo il cambiamento oggi sta crescendo. Questa fase di transizione porterà a cambiamenti: occorre superare le barriere culturali, aprirsi al mondo con l’internazionalizzazione. L’Erasmus è un veicolo di crescita importante ma ci sono spazi per investire più decisamente sull’internazionalizzazione coinvolgendo docenti stranieri e lavorando sui ranking. La LIUC si sta muovendo: abbiamo un discreto numero di studenti che sta facendo esperienze in atenei all’estero e studenti stranieri che stanno seguendo le nostre lezioni. Puntiamo molto anche su docenti di altri paesi in visita da noi per portare contenuti didattici e di ricerca innovativi. È, inoltre, fondamentale la vicinanza, il collegamento dell’Università con i professori delle Scuole Superiori pensando alla crescita formativa dei ragazzi quale processo lungo, a cui occorre dedicare tempo. La LIUC investe molto in tale direzione».

L’apertura di corsi universitari completamente in inglese ha fatto gridare allo scandalo
«Anche questa deve essere una conquista soprattutto culturale. Non possiamo fermarci a ragioni di principio, dobbiamo capire dove va il mercato, quali strumenti devono avere i nostri ragazzi per competere. I nostri ragazzi sanno scegliere e sono in grado di capire quale via imboccare per il proprio futuro. È l’Università che deve essere pronta a indicare quella più costruttiva».

Non potrebbe  essere un contributo alla crescita levare il numero chiuso? La vicina Svizzera accetta tutti ma poi attua una rigida selezione nel primo anno di corso…
« Questo è un discorso più complesso che coinvolge l’intero modello universitario. Ci si potrebbe interrogare sulla bontà del numero chiuso o dei sistemi alternativi scelti da altri paesi. Ma non possiamo dimenticare che sono modelli che impongono rigidità valutative e che limitano autonomia e discrezionalità dei singoli atenei. Sono davvero i migliori? Siamo pronti per farlo?»

Alessandra Toni
alessandra.toni@varesenews.it

Sono una redattrice anziana, protagonista della grande crescita di questa testata. La nostra forza sono i lettori a cui chiediamo un patto di alleanza per continuare a crescere insieme.

Pubblicato il 14 Settembre 2016
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