I documenti raccontano. La banalità del male a Varese

Le carte conservate all'Archivio di Stato raccontano l'applicazione delle Leggi razziali e la persecuzione, ma anche i disperati tentativi dei cittadini di origine ebraica di salvarsi e salvare i propri figli

Varese generiche

Una mostra di documenti, all’Archivio di Stato di Varese, ha raccontato l’applicazione delle Leggi razziali in provincia di Varese e la successiva persecuzione: documenti compilati da chi a partire dal 1938 censì uno ad uno – fin dai neonati – i cittadini d’origine ebraica tra i laghi e la pianura. Il preludio alla deportazione e allo sterminio che sarebbe stato attuato solo pochi anni dopo.

L’Archivio di Stato – presente a Varese come in ogni altro capoluogo di provincia italiano – raccoglie documenti che raccontano la storia delle comunità locali, dell’apparato dello Stato, ma anche di migliaia di cittadini. «Abbiamo selezionato documentazione che ricorda quel periodo storico particolarmente travagliato» spiega Claudio Critelli, direttore dell’Archivio di Stato a Varese. «Si parte con la Gazzetta Ufficiale del 1938 e si prosegue con i documenti che raccontano l’attenzione posta dai ministeri e dalla Prefettura sul censimento dei cittadini italiani di religione e ebraica. È una documentazione che fu utilizzata poi per limitare la libertà di questa parte della popolazione italiana, arrivando ad un progressivamente concentramento». La mostra è stata allestita con documenti conservati a Varese e anche con alcuni documenti dall’Archivio di Stato di Milano (censimento del 1938, già analizzato da Francesco Scomazzon nel suo fondamentale “Maledetti figli di Giuda, vi prenderemo“).

[nella foto: la Questura di Varese nel 1941]

In lettere ed atti della Questura, del Provveditorato agli Studi, dei Comuni rivivono le vicende drammatiche dei cittadini di origine ebraica, selezionate in particolare attraverso alcune figure particolari. A Varese la macchina dello Stato si mise subito al lavoro. Entrata in vigore la Legge sulla razza il 5 settembre, già il 27 settembre il Provveditorato si attivò per censire gli insegnanti ebrei, destinati ad essere licenziati (in provincia c’erano due insegnanti elementari, una incaricata in istituto tecnico, due professoresse, tutti con genitori ebrei (una professoressa era ebrea solo da parte di madre).

Nel frattempo, gli ebrei italiani della provincia si attivavano per evitare la schedatura personale o la perdita dei beni, come nel caso del maresciallo maggiore Leone Tapiero (morto ad Auschwitz) o Giulio Levi di Viggiù. La famiglia Vita-Mayer di Abbiate Guazzone cercò di evitare il sequestro della propria azienda, la celebre cartiera, ma – nonostante in famiglia ci fossero esponenti fascisti – le proprietà furono sequestrate. Una storia molto dolorosa è quella di Sebastiano Pieczuro, medico apolide (cioè privo di cittadinanza, immigrato dalla Polonia) di Lavena Ponte Tresa: le lettere conservate in Archivio raccontano che cercò in ogni modo di evitare che il figlio Alberto, nato nel 1939 dal matrimonio con una donna italiana cattolica, fosse considerato ebreo (in una lettera denuncia di esser stato scacciato in malo modo e umiliato dal segretario comunale di Ponte Tresa).

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Altri documenti raccontano i tentativi di espatrio, in particolare verso il confine svizzero, e – all’opposto – l’attenzione della Confederazione Elvetica, che cercava di evitare la deportazione dei propri cittadini presenti in Italia. In molti documenti filtra la freddezza con cui i funzionari di ogni grado – dal Comune all’amministrazione dello Stato – applicarono le norme, isolando e poi contribuendo a sterminare dei cittadini italiani, che vivevano dentro alle comunità, a volte anche con ruoli sociali importanti.

È – vista da vicino, da Varese – la banalità burocratica del male, di chi non seppe opporsi e si limitò ad applicare, magari senza acrimonia, una legge ingiusta. Ci fu anche chi si oppose e fu denunciato dai suoi stessi colleghi: è la storia di Calogero Marrone, cui è dedicata una sezione della mostra.

Roberto Morandi
roberto.morandi@varesenews.it

Fare giornalismo vuol dire raccontare i fatti, avere il coraggio di interpretarli, a volte anche cercare nel passato le radici di ciò che viviamo. È quello che provo a fare a VareseNews.

Pubblicato il 25 Gennaio 2017
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  1. Avatar
    Scritto da donatella_rodighiero

    Quanti varesini ci sono…tornati dai campi di sterminio..non diventati famosi..rimasti nell’anonimato, chiusi nelle loro case con i loro ricordi…
    Mio zio Ambrogio, pro-zio pardon.., e tornato dopo 2 anni di prigionia ad Auschwitz e 3 a Buchenwald , tornato due anni dopo la liberazione dei campi.., Sua Moglie, tornata da Auschwitz.., proprietaria di un negozio di articoli da Bambino, all’inizio di viale borri… tornati fisicamente, ma sempre con le maniche lunghe sulle braccia , sorrisi tristi e occhi in un passato presente.

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