Mariuccia Chierico, una vita per “mettere insieme” tutto il mondo

Classe 1930, mai sposata, sempre al lavoro. Anche dopo essere andata in pensione. Grazie alla sua conoscenza delle lingue, ha avuto avventure umanitarie che hanno segnato la storia

Mariuccia chierico

E’ una vera perla nascosta della città Mariuccia Chierico, che vive a Casbeno da tanti anni ed è stata insignita, a fine 2016 del premio “ Bontà Coraggiosa ” Ha avuto una vita piena di straordinari incontri, di avventure, di scoperte non ancora finite: una vita che è tutta da raccontare, al’insegna dell’aiuto in giro per il mondo. Abbiamo provato a farcela riassumere, perchè raccontarla tutta è quasi impossibile…

Nata a Inarzo, Mariuccia ha passato la sua infanzia in campagna, ma nel dopoguerra, morto suo padre, dovette trasferirsi a Varese, più precisamente a Casbeno, dove ha vissuto da allora. «Sono nata negli anni della civiltà agricola, gli anni della fatica. Per di più, dalla nascita ai 20 anni ho sentito solo parlare di guerra: primo mio padre, poi mio fratello. I miei primi ricordi sono quindi di conflitto, ho vissuto tutta la propaganda fascista. Era quella delle rondinelle d’Italia. Poi venne la civiltà del dopoguerra. Li era possibile fare di tutto: ho vissuto il miracolo economico. Erano anni in cui bastava alzare un dito per trovare il lavoro. Io ero una stenodattilografa, andavo a Milano a lavorare, potevo imparare l’inglese, il tedesco… si pendolava ma si potevano fare tante cose»

IL SOGNO DI LAVORARE NEL SOCIALE

«Il mio primissimo lavoro è stato in una azienda che si chiamava Textiles & Textile: c’era ancora mio padre, ho lavorato 5 anni. Lì ho conosciuto la fatica vera. Morto mio padre, che era tutto il mio mondo giovanile, i miei fratelli lavoravano già e hanno venduto tutto quello che avevamo: casa, bosco, palude. Sono nata nella natura, in un clima di silenzio come vogliono i pescatori, con mio padre era questo l’ambiente in cui vivevo. Venduto tutto, mi sono trasferita a Varese, con la mamma e i fratelli. E da qui sono andata a Milano a cercare lavoro. Qui vicino abitava il presidente del gruppo Bassetti, li conoscevo mi proposero di andare a lavorare da loro, a Milano. Ci lavorai per 10 anni, da pendolare. E mentre pendolavo, studiavo: mi sono presentata come privatista all’esame di maturità in ragioneria. Non che fosse il mio obiettivo nella vita, in realtà volevo avere un diploma per avere la possibilità di raggiungere qualcos’altro: il mio “qualcos’altro” era una scuola superiore di servizio sociale, la scuola Ensis, ad orientamento cattolico ma soprattutto vicino alla stazione Nord. Quando cominciai a frequentarla, a metà strada ebbi una borsa di studio per l’America, perchè sapevo l’inglese meglio di altri. Era il progetto Experiment, eravamo in 5 da tutta Italia. Avevo imparato l’inglese con programmi di scambio tra italiani e americani, polacchi, svedesi, indiani: progetti dell’Unesco che volevano unire persone di diversi paesi».

Con la Borsa di studio parte nel 1967 per gli Usa: «Andai a Cleveland, famosa perchè nell’università locale per la prima volta avevano praticato la terapia di gruppo per il disagio sociale. Ma il nostro habitat sociale era molto diverso da quello che trovai là: lì ho visto per la prima volta i tossicodipendenti, e le terapie che ne curavano il disagio, che allora qui nemmeno esistevano. Insegnamenti che mi servirono molto più avanti».

ASSISTENTE SOCIALE DI FABBRICA

Alla fine, la scuola superiore si conclude: «La tesi l’ho data nel 1968». E da allora diventa “assistente sociale di fabbrica”: una figura che stava nascendo in quegli anni , e che non è più esistente. «Le assistenti sociali di fabbrica erano a quell’epoca una novità che avevano solo le grandi aziende: dal Corriere della Sera alla Borletti, dalla Sip alla Fiat. Erano tempi in cui c’era grande sensibilità a questi temi, e grandi difficoltà anche all’interno delle aziende». Ora però questo lavoro non esiste più: «In realtà, tutti i lavori che ho fatto io non esistono piu» commenda ripensando alla sua vita.

In vista, tra le altre cose, in quegli anni, c’era anche la chiusura dei manicomi: «Ho fatto piu assistenza psichiatrica che altro in quel periodo, nelle aziende: perchè nel momento della chiusura dei manicomi bisognava trovar loro un’occupazione. E gli psichiatri cercavano di sistemarli in casermoni, in catena di montaggio: allora sembrava una buona idea perchè era un luogo di lavoro dove non c’era tanto da pensare».

«A Milano nacque il servizio sociale di fabbrica, un ente – agenzia che assumeva gli assistenti sociali che poi venivano assegnati, come collaboratori indipendenti, alle aziende che ne facevano richiesta. Io ero una di quelli, e il mio primo incarico è stato alla Malerba, quando ancora dovevo fare la tesi. Li feci un part time di un anno».

Mariuccia chierico

DA BARNARD IN SUDAFRICA PER UNA LAVORATRICE MALERBA

«È stato durante l’anno di part time alla Malerba che è saltata fuori la storia di Barnard – spiega Mariuccia – Una signora che lavorava alla Malerba, vedova con 5 figli, aveva un problema tragico: ogni giorno durante la pausa pranzo, saltava la mensa, prendeva un cappuccino e veniva a piangere da me, dicendomi che le avevano detto che la sua bambina non avrebbe superato gli 8 anni per una malformazione congenita. Lei però aveva sentito parlare del grande cardiologo Barnard, famosissimo in quegli anni per i primi trapianti di cuore, e voleva “il miracolo”. Io potevo cercare di contattarli, e alla fine ci provai: dal Sudafrica però ci chiesero le cartelle cliniche italiane, che erano irreperibili» spiega Mariuccia.

Morale: «Per mostrare la sua malattia sono partita per il Sudafrica con una fotografia a colori e una diagnosi approssimativa. Alla fine è andata bene, l’hanno accettata e ha fatto l’operazione. Noi, intanto, abbiamo vissuto da vicino l’apartheid, che per noi era inconcepibile: lì tutto era diviso tra bianchi e neri, persino i laboratori di radiologia. Io sono stata in Sudafrica 15 giorni, il tempo di trovar loro un alloggio presso una famiglia italiana, e per spiegare al team esattamente i problemi e i termini della questione. Non lavoravo, ormai, nemmeno piu alla Malerba. Lavoravo già alla Ire, che mi ha dato il permesso di portare a termine questa “missione”, mentre la Malerba pensava a tutte le questioni economiche della famiglia della lavoratrice. Dopo sei mesi Barnard la operò. Era il primo caso al mondo di impianto in teflon: e fu un grande successo. La ragazzina non solo non morì più a 8 anni, ma si è sposata, ha avuto 3 figli, ed è vissuta fino a 40 anni».

IN GIAPPONE UNA “MISSIONE IMPOSSIBILE”

Dopo la Malerba Mariuccia va a lavorare per la Ignis, e poi per il Lanificio di Somma, dove rimane 4 anni. E poi… «Ero già tornata alla Ire, quando il capo dei sindacati del Lanificio mi chiama disperato per una lavoratrice che aveva una situazione difficile: erano riusciti a completare una raccolta di fondi per fare operare il suo bambino, ma il padre era impossibilitato ad accompagnare mamma e figlio. Così, mi supplicano di accompagnarla, io che avevo esperienza: memore di quello che era successo con Barnard, chiedo se hanno già inviato la cartella clinica. Loro mi rispondono di si e io parto, ma quando arrivo in Giappone mi rendo conto che non avevano assolutamente nulla. Rifacciamo tutto da capo e ricominciamo, ma la situazione ormai era già molto compromessa. Il bimbo mori l’anno dopo, proprio nel giorno in cui transitò da Varese il medico giapponese che fece di tutto per salvarlo».

IL CUAMM E L’ETIOPIA: “UN’AVVENTURA DA VECCHIETTI”

Le attività “internazionali” di Mariuccia però non finiscono qui, e proseguono anche dopo la pensione: «Nel 2005 venne da me un medico di Varano Borghi, che era diventato chirurgo ad Angera: ci conoscevamo perchè io gli avevo battuto la tesi 30 anni prima. Lo rivedo, e mi dice “sai che ho pensato a te? Volevo andare a fare un’esperienza in Africa, ma non ho un inglese decente”. Io mi offrii di fargli fare pratica. A Natale poi lo metto in contatto con uno studente dell’Etiopia, pre vedere se si riesce a organizzare il viaggio, che a questo punto aveva come obiettivo l’ospedale italiano di Volisso realizzato dal Cuamm. Alla fine, però, lui e l’amico medico che lo aveva seguito hanno coinvolto anche me: per me è stato un viaggio che li ha accompagnati per 15 giorni, loro invece hanno trovato la loro dimensione, e vano regolarmente là, ad aiutare».

CON SLOWFOOD A RACCONTARE LE ERBE EDIBILI

Pensate che a questo punto, Mariuccia abbia deciso di mettersi tranquilla? No, troppi gli stimoli che ancora arrivano da amici e conoscenti: «Sono tornata alle passioni di prima di arrivare a Varese: la campagna e i suoi prati. io conosco tutte le erbe selvatiche che si possono mangiare. Sono davvero tantissime. So anche come si cucinano, perchè semplicemente facevano parte del mio patrimonio di conoscenze di bambina. Niente di strano, o di straordinario: solo me le ricordo, e le ho fatte vedere a qualche amico, mentre facevamo delle passeggiate».

Risultato? Delle gite di Slow Food Varese  dedicate alle erbe edibili su come raccoglierle, pulirle e mangiarle. L’ultima si è svolta a marzo, la prossima potrebbe essere a settembre. Protagonista della giornata? Mariuccia Chierico. Che alla fine della chiacchierata dice un po’ stupita: «Ma davvero vuole scrivere qualcosa di quel che ho detto? Non è che abbia mai fatto qualcosa di speciale. Semplicemente, mi sono capitate delle cose, visto che ho già la mia età».

Stefania Radman
stefania.radman@varesenews.it

Il web è meraviglioso finchè menti appassionate lo aggiornano di contenuti interessanti, piacevoli, utili. Io, con i miei colleghi di VareseNews, ci provo ogni giorno. Ci sosterrai? 

Pubblicato il 07 Giugno 2017
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