Giornalismo consapevole antidoto contro le fake news

Sala piena per l’incontro inaugurale di GlocalNews. Un confronto sul futuro partendo dal presente della professione e dell’informazione

Avarie

Il modo di fare business distrugge la realtà ontologica dei fatti, ed è ora di intervenire, perché il mezzo è diventato anche contenuto, e il grande potere dei player della portata di Google, Facebook e altri è spesso frutto di grandi volumi di traffico prodotto anche da notizie false.

«Fenomeni facilmente “aggredibili” se solo i grandi Paesi e le istituzioni come l’Unione Europea si sedessero ad un tavolo per redigere regole internazionali del digitale, non limitative della libertà ma limitative dell’offesa alla libertà e alla verità. È ora di intervenire».

Non ha dubbi Alessandro Galimberti presidente Ordine giornalisti Lombardia intervenuto al seguitassimo incontro su Fake news, privacy e giornalismo, che ha aperto la sesta edizione di GlocalNews alla Sala Campiotti della Camera di Commercio di Varese.

Galimberti ha tracciato un panorama da brividi, che di fatto ci fa vivere in un mondo dove le grandi piattaforme sociali sanno tutto di noi, e come un giano bifronte sono in grado di costruirsi regole in maniera autonoma. Qualche volta i Paesi intervengono, come la Germania, che ha emanato una legge che dà 50 milioni di euro di multa se la notizia falsa non viene rimossa entro le 24 ore: Facebook ha assoldato per due settimane 600 “detectives” in madre lingua tedesca per ripulire la piattaforma. Ma nella maggior parte dei casi questi fake rimangono, e inquinano il modo di pensare di ciascuno di noi.

La mattinata è partita con una disamina a volo d’uccello da parte di Paolo Pozzi, dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, circa il peso dei diversi player nel campo dell’editoria, con ricavi in crescita sul piano del web, ma che vede la carta ancora come preponderante.

Si è poi passati sul tecnico per comprendere a che punti sia la tecnologia in riferimento alla privacy. Michele Vitiello, esperto di investigazioni informatiche e consulente giudiziario ne ha parlato nel suo dettagliato intervento: il telefono che portiamo in tasca è solo la punta dell’iceberg delle informazioni che cediamo in cambio di servizi gratuiti. Poi vengono le videocamere onnipresenti, i social, e persino i frigoriferi di casa di ultima generazione che “parlano”, magari segnalando dati a chi cerca un evaso, o molto più semplicemente – e subdolamente – a chi ci vende il latte.

Presente al tavolo Raffaele Fiengo, che dopo questa disamina tecnica ha scattato la sua foto sullo stato del giornalismo oggi, quel giornalismo che in passato ha giocato un ruolo fondamentale nella formazione dell’opinione pubblica ma che da una quindicina d’anni a questa parte ha subito il trauma per via della necessità di nuovi modelli di business pubblicitario.
Succede allora che alcuni editori sentano l’esigenza di denunciare che qualcosa sta cambiando: il Washington Post (di Bezos, il fondatore di Amazon) scrive sotto la testata “democracy dies in darkness” o che l’Economist, giornale strutturalmente indipendente, scelga una cover story dai titolo emblematico:”Facebook minaccia la democrazia?”.
Cosa sta succedendo, dunque? Succede questo, che gli editori per sopravvivere hanno abbattuto il muro esistente tra giornalismo e affari, qualcuno si è opposto “lasciandoci le penne”, come l’ex direttrice del New York Times, Jill Abramson. E allora si è assistito alla corsa alla pubblicità nativa e sulle nuove notiziabilità dei giornali, fenomeno visibile anche nei media italiani.
Un modello che secondo Fiengo può convivere col “journalism first” solo lavorando sul giornalista: se questi ha la dignità del lavoro che vuol fare e segue le regole deontologiche può migliorare il sistema “dall’interno” delle testate e dei giornali. Una proposta che vale anche e sopratutto per chi campa di giornalismo senza lavorare in una redazione: il rischio di produrre notizie al limite, e anche oltre anche “fake news” c’è: allora in questo «l’Ordine dei giornalisti deve avere la forza di accogliere l’adesione alle regole deontologiche da chi vive di giornalismo. È’ cosa urgente e se questo non avviene arretreremo ancora».

Una proposta accolta dal presidente Galimberti che si è preso l’impegno di continuare ad investire sulla formazione, soprattutto deontologica, che spesso fa riferimento alle carte che Paolo Pozzi ha citato.

Il discorso è poi tornato a bomba sulla questione principale dibattuta anche a Glocal in questi anni. È la questione delle questioni, legata a doppia trama all’esistenza stessa di un giornale e alla sua qualità: il modello di business, la sostenibilità di un’impresa editoriale, anche piccola. Modello di business certi, ancora non c’è ne sono se non quello alla Bezos: “Arrivo con la valigia di contanti e mi compro il Whasington Post”. Lo dice sorridendo Luca Sofri, quasi scherzando ma non troppo, nel corso del suo intervento.

«Nessuno ha la minima idea di quel che sarà l’informazione nei prossimi anni. Nessuno aveva capito anni fa quello che è per esempio il panorama attuale – ha spiegato Sofri – . Tra una settimana, per esempio, Repubblica uscirà con un restyling in cui ci sarà separazione tra carta e sito, una cosa impensabile anni fa quando si ragionava di integrazione: la narrazione sulla morte della carta fatta negli ultimi anni è completamente errata sebbene gli stessi contenuti on line siano comunque percepiti come di minor valore».

Il punto, secondo Sofri, è che le democrazie funzionano solo se sono ben informate: i risultati elettorali sono sempre stati influenzati dalla stampa. La globalizzazione della stampa ha avuto dei limiti in Italia: «L’accuratezza e l’affidabilità anglosassone sono completamente diverse da quella italiana: da noi non sempre il buon giornalismo lo troviamo nei giornali tradizionali o in quali che pensiamo siano media tradizionali».

Tutto da buttare, quindi? No. «Nicchie di domande di qualità da parte dei lettori si stanno ricomponendo dopo il periodo della gratuità e non accuratezza. Coltivare rapporto di fiducia coi lettori è quindi l’unica arma che funziona.
E attenzione: i giornali che dipendono dai lettori sono anche molto plagiati dalle reazioni dei lettori stessi, da quel “ricatto dei lettori” se ad esempio ti sostengono economicamente, proprio come fa la pubblicità o l’editore».

Ottimista, sulla condizione del giornalismo, è Annalisa Monfreda: dieci anni fa c’era più libertà coi lettori nei contesti in cui si vendeva molto, meno con la pubblicità, vera padrona delle redazioni. «Oggi invece noto un’atmosfera generale diversa del journalism first e noto segnali forti su questa linea. Dieci anni fa ci fu la corsa delle redazioni cartacee a migrare sul web e gli editori, pur di avere un prodotto digitale accettavano, anzi chiedevano contenuti di bassa qualità. Oggi è l’inverso ed è l’editore che chiede maggior qualità per i contenuti online, con redazioni integrate».

Anche il rapporto col mondo della pubblicità sta segnando cambiamenti, e in meglio «Ci sono aziende che pagano per coprire costi su argomenti specifici: un vero mecenatismo». Esempi? «Vodafone ci ha permesso di coprire con un foto-giornalista il terremoto, che abbiamo raccontato liberamente per mesi rimanendo sul posto – ha concluso Monfreda – . L’Oreal ha investito su alcuni servizi sulla dislessia: nessun marchio dell’azienda nei pezzi, nessun condizionamento. Esiste il bisogno delle aziende di investire in giornalismo di qualità».
Temi affascinanti che riguardano la vita di tutti i giorni e che l’opinione pubblica deve imparare a conoscere e governare. Ne va della libertà di ciascuno di noi.

Andrea Camurani
andrea.camurani@varesenews.it

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Pubblicato il 16 Novembre 2017
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