Governance e guerra dei talenti punti deboli dell’impresa familiare

In europa sono 14 milioni e generano oltre 60 milioni di posti di lavoro. Nella sede di Univa di Gallarate un incontro sul family business

univa

«Non è vero che le imprese familiari sono piccole, più della metà superano i 50 milioni di euro di fatturato e il 40% di queste ha più di 250 dipendenti». Fabio Monti di kpmg, presentando la sesta edizione del sondaggio “Il barometro delle imprese familiari europee“, ha esordito sfatando una serie di luoghi comuni che falsano la nostra percezione di questo importante fenomeno. Le imprese familiari non sono dunque un’eccezione del sistema economico italiano, ma la regola di quello europeo. Nel Vecchio Continente sono ben 14 milioni e in grado di generare oltre 60 milioni di posti di lavoro. Una vera e propria armata che schiera enormi corazzate accanto a piccoli fanti.
Un’importanza sottolineata dalla grande presenza di imprenditori nella sede degli industriali di Gallarate per il convegno dedicato al family business uno degli “Approfondimenti di finanza-scuola di impresa”, organizzato da Marco Crespi di Univa in collaborazione con Ivan Spertini di Kpmg.

POCA COERENZA NELLA GOVERNANCE
Ciò che distingue le imprese familiari italiane – il campione del sondaggio ne include cento – è un diverso approccio alla governance. «Gli imprenditori italiani – ha sottolineato Silvia Rimoldi, responsabile del centro di eccellenza family business Kpmg – sulla governance dicono alcune cose ma poi ne fanno altre, nonostante abbiano molti strumenti a disposizione».
Se un quarto delle aziende europee ha già formalizzato un piano di successione per l’amministratore delegato e per la prima linea di management, un patto di famiglia e politiche di remunerazione per i familiari impegnati in azienda, quelle italiane si fermano al patto di famiglia, mentre gli altri strumenti vengono utilizzati solo dal 10%.
“Il termometro“, applicato alle imprese italiane, misura valori diversi rispetto al resto delle imprese europee che per il 43% sono più preoccupate dalla “guerra dei talenti”, cioè dalla maggior capacità  dei colossi multinazionali di attrarre giovani ad alto potenziale, che non dall’inasprimento della concorrenza (37%) e dal calo dei profitti (36%). Così non è per quelle italiane che invece hanno come priorità il recupero di una marginalità accettabile (62%).

LA SOSTENIBILITÀ PER IL MERITO DI CREDITO
Insieme alla governance per il futuro delle imprese familiari sarà determinante la sostenibilità della loro crescita, criterio che determinerà anche il merito nell’accesso al credito. Secondo Pier Mario Barzaghi, kpmg advisory, la sfida non arriva solo dalla normativa. «Tutto ciò che non è un obbligo viene vissuto dall’imprenditore come un costo e non come un investimento – ha spiegato Barzaghi -. L’imprenditore sogna la crescita, ricerca continuamente la marginalità e nuovi mercati senza valutarne i rischi, che non sono solo finanziari e operativi ma anche reputazionali, rischi che una governance sostenibile deve tenere in considerazione».

IL DECLINO HA PIÙ ANTIDOTI
Un terzo delle società familiari non sopravvive al primo passaggio generazionale, il 50% non riesce a superare il passaggio dalla seconda alla terza generazione. «I motivi del declino – ha detto Johan Bode, esperto in M&A e governance aziendale – sono riconducibili a tensioni tra membri della famiglia con poteri uguali, alle emozioni che scandiscono i loro rapporti e alla mancanza di preparazione ad affrontare problemi complessi». Cambiare è possibile ma solo se lo si fa nei tempi giusti: si puo’ vendere, fondere, chiudere e anche non fare nulla. Gli antidoti contro il declino ci sono e sono efficaci: avere un sistema di governance, prediligere la competenza rispetto all’appartenenza, definire regole per il cambiamento, coinvolgere persone esterne alla  famiglia e pianificare gli obiettivi e i progetti.

LA FATICA DELLA TERZA GENERAZIONE
Parlare come terza generazione e amministratore delegato di un’azienda, dopo aver ascoltato percentuali e statistiche sui falliti passaggi di testimone, non è semplice, nonostante i 35 anni di età e i 400 milioni di fatturato del gruppo Comoli e Ferrari, distributore b2b di materiale elettrico che il prossimo anno compirà 90 anni. «Il passaggio generazionale è difficile sia per chi passa il testimone sia per chi lo riceve – ha raccontato Paolo Ferrari -. La governance  è un tema fondamentale. Noi abbiamo un cda di famiglia, siamo in venti, abbiamo adottato patti di famiglia e introdotto il controllo di gestione, abbastanza raro tra le aziende italiane che a volte si sfasciano per ragioni che nulla hanno a che fare con il loro andamento».

IL BUSINESS ANGEL FINANZIA L’INNOVAZIONE
Il fatto che esistano le imprese familiari, secondo il business angel Giancarlo Rocchietti, non significa che esistano anche i capitali familiari. Se poi si considera che in Italia il venture capital è quasi inesistente, va da sé che gli investimenti nelle startup innovative ci collocano agli ultimi posti della classifica europea. «Delle 8.400 startup italiane – ha detto Rocchietti – nessuna porta il nome di una famiglia o del fondatore. Un tempo c’era l’uomo solo al comando, oggi l’imprenditore è uno che sa lavorare in team».
Prima di fondare il Club degli investitori, di cui è presidente, Rocchietti era il proprietario di Euphon società quotata in borsa e specializzata nel settore dei servizi multimediali. «Fare il business angel oggi  vuol dire fare l’imprenditore degli imprenditori».

Michele Mancino
michele.mancino@varesenews.it

Il lettore merita rispetto. Ecco perché racconto i fatti usando un linguaggio democratico, non mi innamoro delle parole, studio tanto e chiedo scusa quando sbaglio.

Pubblicato il 18 Aprile 2018
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