Piccolomo, l’accusa chiede l’ergastolo

Questa mattina la requisitoria della procuratrice Maria Grazia Omboni. La difesa chiede il proscioglimento: «Mancano le prove». Sentenza il 18 gennaio

Avarie

Dopo una requisitoria durata oltre tre ore è arrivata la richiesta pronunciata dalla procuratrice generale Maria Grazia Omboni: «Fu Giuseppe Piccolomo a uccidere sua moglie Marisa Maldera la notte del 20 febbraio 2003. La drogò con del tranquillanti e una volta che il tavor fece effetto, addormentandola, portata l’auto nel capo di Caravate, la cosparse di benzina, e la bruciò viva».

Per questo la Procura chiede la condanna all’ergastolo contestando all’imputato, che ha ascoltato impassibile per tutto il tempo le ricostruzioni del magistrato, anche la premeditazione.

Nel pomeriggio parleranno l’avvocato Antonio Cozza, per le parti civili, e il difensore, Stefano Bruno.

UN BUCO DI QUARANTA MINUTI – La procuratrice Omboni ha ripercorso nella sua discussione le tappe dei fatti sulla base delle risultanze documentali, vista l’assenza di testimoni: l’unico a sapere com’è andata è l’imputato, che naturalmente può raccontare la “sua” verità.
Sul piano testimoniale, particolare credito è stato dato alla ricostruzione del teste Alessio Conti che passò quella notte nei pressi del campo dove venne ritrovata l’auto dai soccorritori senza notare nulla. Dopo pochi minuti vide una vampata, il veicolo in fiamme e un uomo che teneva in mano qualcosa che sembrava verosimilmente un giubbotto: erano le 3.39 del 20 febbraio 2003 e fu lui, Conti, a chiamare il 118.
Poi è stata ripercorsa la copiosa mole di perizie e ricostruzioni fatte sul tragitto della Volvo Polar, con a bordo la tanica di benzina, le prove eseguite dalla polizia giudiziaria anche facendo manovre azzardate sul veicolo, e i test sulla combustione che dimostrerebbero come solo dopo una copiosa fuoriuscita di carburante associata ad un contatto con un innesco acceso poteva produrre la vampata di fuoco e l’incendio.
Piccolomo quella sera, secondo la ricostruzione dell’accusa, partì dal ristorante di Caravate per arrivare all’abitazione dei coniugi dove era presente la donna marocchina che sarebbe in futuro diventata la sua seconda moglie, Thali Zineb. Qui l’imputato avrebbe somministrato a Marisa Maldera a sua insaputa – in acqua o nel caffè – del Tavor. Poi il giro a Varese, per far si che il sonnifero facesse effetto.
La coppia venne fermata alla Schiranna dai Carabinieri alle 2.20 e fece rientro verso Caravate. È qui, secondo l’accusa, che ci sarebbe il buco di una quarantina di minuti, in cui nessuno sa che cosa sia successo, fino all’incendio.

UN CONTAINER DI PROVE – Per Antonio Cozza, legale delle due figlie Cinzia e Tina che si sono costituite parte civile, «Giuseppe Piccolomo andava fermato nel 2003. Le indagini iniziali su questo caso sono state fatte male e hanno consentito di lasciare in libertà quest’uomo. Questo processo andava celebrato 15 anni fa, non oggi».
Nella sua discussione Cozza ha affrontato i rapporti fra la vittima e il marito, e ha parlato anche lui di Thali Zineb, «“illustre assente” di questo processo, l’unica che ha visto Marisa Maldera, quella notte».
I moventi dell’omicidio volontario secondo l’avvocato Cozza sono due: quello sentimentale, che vedeva “Pippo” completamente infatuato della lavapiatti marocchina. E poi il movente economico che avrebbe fruttato a Piccolomo «400 mila euro, fra polizze e appartamenti e l’oro che venne ritrovato nel forno dopo la morte della moglie e in seguito venduto» .
La richiesta della parte civile si traduce in una provvisionale di 50 mila euro per ciascuna delle figlie e di 200 mila euro a testa a titolo di risarcimento.
«Questo processo ha un container di prove a carico dell’imputato» ha concluso l’avvocato Antonio Cozza rivolgendosi alla Corte: «Se l’imputato verrà assolto dovrete scrivere nella sentenza che andò a prendere un caffè all’una di notte con la moglie e che si ribaltò con l’auto in mezzo a un campo senza lasciare segni sul terreno».

LA DIFESA: Il FATTO NON SUSSISTE“Non si può condannare Piccolomo perché è Piccolomo”. Se le arringhe avessero dei titoli, quella pronunciata venerdì pomeriggio dal legale dell’imputato Stefano Bruno potrebbe essere titolata così. In realtà Bruno questa frase l’ha detta nel corso della sua discussione volta a dimostrare l’innocenza del suo difeso.
«Se vi fosse un programma per rintracciare le parole all’interno delle carte relative a questo processo si troverebbero una miriade di “verisimile”, “verosimilmnente”, “verosimiglianza”…ma il verosimile non è la verità. È qualcosa che può esserci, o può non esserci. La questione del giubbotto usato per spegnere le fiamme può ad esempio essere verosimilmente un giubbotto, ma anche no, avrebbe potuto essere tranquillamente una frasca, o una coperta», ha spiegato Bruno ai cronisti in una pausa del processo. Un concetto ribadito durante il suo intervento, volto a chiedere l’assoluzione perché “il fatto non sussiste”.
«Questo alla luce del fatto che nel corso del dibattimento non sono emerse prove. Avevamo peraltro già abbondantemente specificato in via preliminare che un processo su questi fatti è già stato celebrato».
Bruno si riferisce al pronunciamento del tribunale di Varese, tre anni dopo i fatti, che applicò la pena di un anno e 4 mesi su richiesta delle parti (patteggiamento) per omicidio colposo: è cioè il fatto legato ad una responsabilità oggettiva, senza dolo, per la morte della moglie: un incidente.
Ma dopo quella decisione e dopo i fatti che battezzarono Piccolomo come “il killer delle mani mozzate” (per l’omicidio del novembre 2009 ai danni di Carla Molinari) si riaprirono le indagini dopo l’incontro delle figlie Cinzia e Tina con la procuratrice Carmen Manfredda di Milano che volle approfondire le dichiarazioni delle ragazza: «La mamma l’ha uccisa lui».
In questa temperie è da inquadrare la frase dell’avvocato Bruno “Non si può condannare Piccolomo perché è Piccolomo”, linea del resto anticipata dallo stesso imputato che rese spontanee dichiarazioni la scorsa udienza: «Non sono un orco» disse di fronte ai giudici della Corte D’Assise.

La verità, quella processuale, la conosceremo tra meno di un mese.

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Pubblicato il 21 Dicembre 2018
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