Il falò di sant’Antonio, una tradizione che nemmeno la guerra ha spento

Parlano due "memorie storiche" del falò: Angelo Monti, che è stato presidente dei Monelli della Motta per decenni, e Angelo Antonetti, che ai tempi della guerra alla motta ci viveva

L'accensione del falò (inserita in galleria)

Il falò di Sant’Antonio, in questo periodo di incendi, è sulla bocca di tutti, specie per chi chiede di vagliarne l’opportunità: ma più che di un fuoco, in realtà, forse bisognerebbe parlare di una tradizione che non muore, e che i cittadini di Varese hanno rivendicato come propria anche nei tempi più bui e contro tutti.

«Il falò inteso istituzionalmente, con la presenza delle autorità, è abbastanza recente: avviene dagli anni ’50, con il sindaco Ossola – spiega Angelo Monti, che è stato per tanti anni presidente dei Monelli della Motta, il gruppo che organizza la manifestazione ed è una veria memoria storica di Varese –  Prima è sempre stata una manifestazione di popolo, e dei “Monelli” soprattutto. Sulla Prealpina della seconda metà dell’800 e nella prima metà del 900, molto spesso c’erano dei rilievi critici in riferimento alle iniziative di questi ragazzi della Motta: negli anni’50, per esempio, tre ragazzi erano andati a rubare la porta dei servizi igienici del ristorante vicino al tribunale per buttarla nel falò. La titolare avvisò i carabinieri, presero questi tre ragazzi, li portarono in caserma e loro fecero scena muta. Furono rimandati a casa con una pedata nel sedere…»

Il falò di allora: «Era molto meno alto di oggi ed era composto da poca legna, che si “rubava” nei cortili»: ma comunque non mancava mai. Ma c’è stato un momento nella storia del falò in cui si è pensato “non lo facciamo”?
«Per quel che ne so io, uno solo, all’inizio della mia presidenza ai Monelli, mentre era sindaco Gibilisco. Non c’erano però motivi oggettivi, ma personali: il comandante dei Vigili del Fuoco di allora era assolutamente poco incline a questo genere di tradizioni, e non si espresse fino all’ultimo sull’autorizzazione, che di norma era pressocchè scontata. Chiedemmo intercessione presso tutte le istituzioni di allora, affinchè ci mandasse una risposta. Ce la mandò per lettera, recapitata da agenti della polizia, mentre stavamo per far partire il corteo che accendeva la pira. Era un no. La feci vedere al sindaco: lui se la mise in tasca e disse “partiamo”». Insomma: grazie a questo piccolo “golpe per sant’Antonio” anche allora il fuoco fu acceso.

Cosa risponde chi propone di chiudere per rispetto all’incendio della Martica? «Che il falò di mercoledì prossimo sarà anche e soprattutto un modo per esprimere la gratitudine per vigili del fuoco impegnati tra quei boschi»

Angelo Antonetti, invece, non era un “monello della Motta”, ma del falò di sant’Antonio se ne ricorda eccome: «Io ero uno di 5 o 6 ragazzini a cui le mamme vietavano di andare a giocare coi monelli: Quelli rubavano i portoni, i miei non ne volevano nemmeno sentir parlare… Perciò non mi posso considerare dei loro – ammette – Però ho sempre vissuto davanti a piazza della Motta, e il falò l’ho visto sempre».

L’ha visto anche durante la guerra? «Certo. In quei tempi c’era l’assoluta proibizione di fare vedere luci in città, col coprifuoco. Per avere delle luci in casa eravamo obbligati a coprire le finestre con carta blu. Però un falò si è sempre fatto, anche a dispetto del comune o della polizia: bastava un piccolo ricordo, quattro fascine e pochi minuti di fuoco, per mantenere anche in tempo di guerra una tradizione di molti secoli».

Molti anni fa, “La Motta” non era considerato genericamente “centro Varese” ma si considerava un paese a sè, anche se a pochi metri da piazza Monte Grappa: «I nostri nonni volevano addirittura staccarsi dal comune di Varese – ricorda Angelo, che da piccolo abitava sopra a quello che ora è il panificio Pigionatti – Del resto, non ci mancava quasi niente: avevamo la chiesa, il macellaio, il panettiere, il fruttivendolo, il calzolaio. Mancava solo il farmacista, per il quale dovevamo “espatriare” in piazza Monte Grappa»

Ma anche a quei tempi, la festa di sant’Antonio era sentitissima: «I festeggiamenti sono sempre stati con migliaia di persone, anche nel tempo di guerra. Per noi ragazzini, sant’Antonio era come un secondo Natale».

Stefania Radman
stefania.radman@varesenews.it

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Pubblicato il 11 Gennaio 2019
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