“Non sai far nulla, imparerai a fare tutto”. Così nacque il mito di Meneghin

Il grande pivot taglia il traguardo dei 70 anni. Ripercorriamo i suoi inizi nel mondo dei canestri attraverso i ricordi di due testimoni d'eccezione: Pier Fausto Vedani e Massimo Lodi

Dino Meneghin

(d. f.) Diciotto gennaio 1950: ad Alano di Piave, provincia di Belluno, viene al mondo un bebè che nel corso degli anni crescerà parecchio, fino a diventare 2 metri e 04 centimetri. Si chiama Dino, di cognome Meneghin e si trasferirà a Varese dove imparerà a giocare a pallacanestro. Lo farà così bene da diventare il giocatore italiano di basket più conosciuto, importante e caratteristico della storia di questo sport. Sette scudetti e cinque Coppe dei Campioni con la maglia di Varese (Ignis e MobilGirgi), poi il trasferimento a Milano e altri successi con la casacca dell’Olimpia. Con la Nazionale due imprese epiche: l’argento olimpico di Mosca e l’oro europeo di Nantes. Bissato, quest’ultimo, da suo figlio Andrea 16 anni più tardi.
Dino Meneghin compie settant’anni e tutti noi vogliamo fare gli auguri a una leggenda. Come VareseNews, abbiamo deciso di festeggiarlo riproponendo questo articolo del 2011 (QUI l’originale) in cui Pier Fausto Vedani intervistò Massimo Lodi sul tema, appunto, Meneghin. Vedani e Lodi sono tra i giornalisti che hanno conosciuto e descritto meglio la carriera di SuperDino e in questo pezzo si “passano la palla” raccontando una serie di curiosità relative al “primo Meneghin”, quello che si avvicina ignaro al mondo del basket e che poi entra nella prima squadra della Ignis fino a farla trionfare in Italia e in Europa.

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Dino Meneghin, settant’anni di una leggenda 4 di 14

… Quando il Varese Calcio per la prima volta sarebbe andato in A e la Pallacanestro Ignis avrebbe vinto il suo secondo scudetto per poi inanellare una Coppa Intercontinentale e una Coppa delle Coppe, c’erano due ragazzini, entrambi classe 1950, ai quali il professor Nico Messina, spezzava il pane del basket: Dino Meneghin, futuro campionissimo, e Massimo Lodi che anni dopo sarebbe diventato il più preparato giornalista della sua generazione […] Nacque un rapporto fatto di rispetto e di una simpatia che nel tempo sarebbe diventata affetto. Non deve meravigliare se Dino Meneghin nel suo libro “Passi da gigante” abbia voluto ricordare più volte noi giornalisti dei primi anni della sua vita sportiva, con i quali ha sempre mantenuto eccellenti rapporti, mai incrinati dagli inevitabili lunghi intervalli tra un contatto personale e l’altro…

Max, riandiamo alla leva che Nico Messina aveva indetto tra i giovanissimi di Varese.
«Era il ’62, a Varese il basket giovanile si chiamava solo e soltanto Robur et Fides. Il gran maestro era Gianni Asti, allenatore formidabile. Messina capì che anche il futuro dell’Ignis doveva passare per la creazione d’un vivaio. E così fece. Organizzò quella leva, che si tenne alla palestra Pascoli di viale Ippodromo, ed ebbe una risposta massiccia. Massiccia ed entusiasta».

Come e quando si è sviluppato il tuo rapporto con Dino?
«Frequentavamo tutt’e due la media Dante, classe seconda, io nella sezione A e lui nella B. Era chiamato “il lungo”, e lo guardavamo con curiosità. I primi giorni della leva dell’Ignis, Messina ci disse: se vedete in giro dei ragazzoni, ditegli di venire qui. Più alti sono e di più diteglielo. Lo dicemmo a Dino, che un giorno si presentò alla palestra dell’Ippodromo, assolutamente ignaro di che cosa fosse il basket».

Auguri super Dino: settant’anni di un uomo speciale

Che cosa in particolare può aver fatto scattare in lui la molla dell’interesse e che ruolo ha avuto Messina nella sua formazione?
«La curiosità, l’entusiasmo per le cose nuove, l’esuberanza naturale. Se gli dicevi: proviamo a far questo, lui provava. Messina, poi, era un trascinatore. Ci ammaliò con la sua carica umana. E ammaliò Dino. Gli diede fiducia subito: non sai fare nulla, ma imparerai a fare tutto. Meglio di tutti. E lo mise a penare per due anni di fila sui fondamentali e a difendere su Bovone, pivot emergente della prima squadra. Messina si è visto riconoscere meno meriti di quelli che aveva».

Dal punto di vista strettamente cestistico quale è stata la dote che Dino ha meglio affinato?
«Uno straordinario senso dell’anticipo. Mai visto uno con il suo tempismo. È stato un difensore eccezionale anche contro pivot più alti di lui perché li bruciava sull’attimo decisivo. Poi la grinta: accendeva d’energia una squadra intera».

Dino Meneghin

Gli americani non regalano niente a nessuno, la loro è terra di miti ineguagliabili, eppure Meneghin è ricordato nel “museo” degli assi USA, la hall of fame.
«Avrebbe potuto giocare nei professionisti, per i quali provò. Poi per tanti motivi decise diversamente. Ma aveva il talento che piace agli americani. Un talento da specialista: saper fare bene pochissime cose, anche una sola».

Da giornalista quale è stata l’emozione più grande che ti ha regalato il compagno dei tuoi sogni sportivi di dodicenne?
«La finale di Coppa dei Campioni del ’73, vinta dalla Ignis a Liegi contro l’Armata Rossa. Finii di dettare in redazione il pezzo della partita, poi mi precipitaii negli spogliatoi per raccogliere le interviste. Incrociai Dino e invece di fargli una domanda lo abbracciai, ricevendone una tremenda stritolata. Poi piangemmo tutti e due. Più tardi, in albergo, mi disse: “Sei proprio un pirla, ma guarda che cosa mi hai fatto fare”».

A pochi nostri colleghi è capitato , passando dal campo alla scrivania, di essere protagonisti di una situazione davvero singolare come la tua.
«Mi trovai a scrivere del mio ex allenatore e del mio ex compagno di leva. Ma devo dire che non fu mai imbarazzante. Primo perché, essendo bravissimi, vincevano sempre. Secondo perché, quand’era il tempo delle critiche, la risposta non veniva da un mugugno, ma da un vaffa fraterno. Come quando stavamo tutti dalla stessa parte. E il caso si chiudeva lì».

Dino in materia di scherzi e imprese è stato inarrestabile anche quando era già titolare, puoi svelare qualche altarino?
«Un classico, negli alberghi in cui la squadra veniva ospitata, era innaffiare di pipì le scarpe che i clienti mettevano fuori delle camere perché fossero lucidate. Poi le incursioni nelle cucine per purghe di massa. Lo svuotamento delle borse e gli scambi dei bagagli. La distruzione degli articoli dei giornalisti, allora scritti a macchina. E dunque non più recuperabili. A Varese un bersaglio fisso di Dino era la tabaccheria all’Arco Mera. Una volta sostituì per qualche minuto il titolare, andato a farsi un panino al caffè Zamberletti, e regalò pacchetti di sigarette a tutti. “Oggi – disse ai clienti – c’è una ricorrenza particolare e si festeggia”. Un’altra volta, di ritorno da una cena al Montallegro, depositò un amico un po’ brillo nell’aiuola di piazza Monte Grappa. Lo svegliarono gli spazzini all’alba».

Quanto ha contato che nella squadra del mito ci fossero parecchi varesini?
«Moltissimo. Più che una squadra, fu un gruppo di amiconi. Di goliardi. E questo fece la differenza. Oggi lo chiameremmo spirito identitario, proprio quello che manca un po’ dappertutto, non solo nello sport. Dobbiamo essere grati a Dino, a Dodo, a Aldo, a Manuel, a Bob, a Ivan, a tutti quelli che hanno esportato il nome di Varese nel mondo. Il bel nome di Varese».

Dino spirito allegro sempre e comunque. Ma un giocatore così bravo e intelligente non avrebbe potuto trasmettere il suo sapere alle nuove leve? Proprio impossibile vederlo allenatore?
«Credo che non l’abbia mai attirato questa professione. Ci vuole anche molta pazienza, e lui sul campo non ne ha mai avuta. Ce l’ha al di fuori, gli riesce benissimo di relazionarsi con gli altri. Sa ascoltare e capire. E quando parla, parla prima di tutto il suo carisma. Un dirigente ideale. E i giovani hanno bisogno d’imparare anche, forse soprattutto, dai bravi dirigenti».

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Pubblicato il 17 Gennaio 2020
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