Da due settimane al lavoro in un reparto Covid in Svizzera: “L’importanza di parlare con chi soffre”

Le riflessioni di un infermiere varesino che lavora in un ospedale del Canton Ticino all’interno di un Reparto Covid-19

paziente

Ad inizio settimana abbiamo ospitato la testimonianza e le riflessioni di un infermiere varesino che lavora in un ospedale del Canton Ticino (trovate qui la sua prima lettera) all’interno di un Reparto Covid-19. Oggi pubblichiamo la seconda parte delle riflessioni che sta facendo questa persona, impegnata dodici ore al giorno nell’emergenza sanitaria aldilà del confine.


La testimonianza di un infermiere varesino (parte 2). 27 marzo 2020. Ore 14.22. #day16: Sono passate poco più di due settimane dal mio momentaneo e duraturo trasferimento sul suolo svizzero per aiutare a far fronte da una parte, all’emergenza covid-19, dall’altra, a continuare a portare il mio contributo come infermiere clinico verso quei pazienti che costantemente necessitano di cure. Perché si fa in fretta a parlare della nuova patologia dilagante, ma c’è sempre stato e c’è tutt’ora, un intero bacino di pazienti i quali necessitano di assistenza per tutta le altre patologie di cui sono affetti.

Tutti noi in questi giorni siamo stati provocati e messi di fronte ad una nuova realtà che in tempi rapidissimi ha cambiato, se non addirittura sconvolto, la maggior parte delle nostre abitudini. Gran parte delle nostre libertà sono state, se non negate, quanto meno sospese. Chi avrebbe mai immaginato che per spostarsi da casa al lavoro e viceversa o per recarci a fare la spesa ci sarebbe voluta un’autodichiarazione da scaricare e compilare da zero quasi settimanalmente? Chi avrebbe mai pensato che nel 2020 la maggior parte delle aziende e fabbriche sarebbero state fermate dall’oggi al domani lasciando attivi solo ospedali farmacie, alimentari e poco altro? E facendo lavorare da casa mezza popolazione con lo smart working, per chi un lavoro continua ad averlo. Per ora.

O ancora. Chi avrebbe mai pronosticato che dall’Italia, ma nello specifico, proprio da Milano, la capitale della moda per eccellenza, sarebbe stato lanciato l’outfit più in voga della collezione inverno-primavera 2020? La mascherina.
Il trend in verità era partito a fine 2019, suscitando poco clamore, nella lontana Wuhan. Ma si sa che la Cina, quando si impegna, può disporre di illimitate risorse. E così in breve la mascherina ha fatto irruzione anche in Europa. Sbaragliando la concorrenza e saltando in cima alle classifiche dei “gadget di protezione individuali” più venduti a livello globale.

La mascherina. Ora la indosso nuovamente. Non per compiere un gesto che ormai faccio quotidianamente da quando entro prima dell’alba in reparto per poi uscire ben oltre l’ora del tramonto. Ma la appoggio sul naso e la bocca. Idealmente. Proprio per non sprecarne, considerati i tempi di crisi nei quali navighiamo. La indosso e varco dapprima le porte dell’ospedale, poi entro in reparto. Lo stesso reparto nel quale lavoro da quasi 5 anni ma che da qualche settimana mi appare sotto una luce diversa. Penso a tutti i pazienti ai quali mi accosterò oggi e ai quali dovrò monitorare il loro stato di salute: attraverso i parametri vitali, le scale di valutazione infermieristiche e attraverso un accertamento mirato per andare a carpire il cuore del problema. Ma prima di fare tutto questo mi avvicinerò a loro e scrutando nei loro occhi la sofferenza che stanno vivendo, gli domanderò “semplicemente” come stanno. A volte quel gesto tanto scontato può essere un ariete che sfonda un portone e dall’altra parte uno può avere accesso ad una banca dati di racconti. Racconti di vita. Storie di vita.

E allora la domanda mi sorge spontanea: “Quanto integro il racconto del paziente nel mio progetto di cura? È e rimane un evento relegato a sé stante o riesco, almeno in parte, a renderlo fruttuoso? Come posso far sì che il racconto sia di utilità e conforto al mio paziente?”

Nel reparto di medicina, dove la rapidità delle tempistiche e le risorse a disposizione devono andare a braccetto al fine di garantire una qualità di cure che si adatti alle necessità dei pazienti, il momento dedicato ad un approccio di tipo narrativo è inizialmente situato nello spazio dedicato all’anamnesi all’ammissione. In seguito ci sono delle possibilità, degli scorci, offerti in alcuni momenti del turno lavorativo come ad esempio durante l’igiene, o il pasto, o in alcuni frangenti del pomeriggio, nel quale si è a diretto contatto con il paziente e gli si dedica del tempo durante il quale si può cogliere l’opportunità di approfondire la conoscenza.

Il racconto di malattia, che è parte integrante del racconto di vita, si struttura all’interno di un rapporto infermiere/paziente; è sinonimo di condividere, un mettersi accanto all’altro senza avere la pretesa di dover consegnare a chi mi sta di fronte un pacchetto di risposte pre-confezionate. È un percorso che si costruisce assieme e nel cerchio che racchiude e definisce l’insieme ci rientrano più soggetti di quelli che uno pensa. Questo cerchio è riempito dal paziente, dalla sua storia, dalla sua cerchia di amici/conoscenti, dal terapeuta, da me infermiere, dal mio collega, dalla mia equipe e dall’intervento multidisciplinare nel contesto intra ed extra-ospedaliero. E dai suoi familiari. Quegli stessi familiari che ora non possono venire a trovarli, ma che alcuni pazienti, ancora lucidi e coscienti, possono sentire vicini tramite lo schermo di un cellulare.

E soltanto quando terminano le loro chiamate e ripiombano nella realtà ospedaliera alcuni di loro riassaporano la conversazione, altri invece te ne raccontano un breve estratto. È un consegnare e un condividere una storia, un donare parte di sé all’altro. Lo spazio del racconto è, a mio parere, uno spazio privilegiato, uno spazio di confronto, uno scambio non esclusivamente informativo ma scambio esperienziale, nel quale si realizza una messa in discussione di me stesso, delle mie emozioni e della mobilizzazione delle mie conoscenze. È uno spazio e un tempo di cura.
E non deve essere mai dato per scontato.

È un esperienza di apertura reciproca di mondi interiori nel quale uno lascia spazio all’altro nell’ascoltare le idee, le emozioni che il paziente ha saputo e voluto comunicare. E saper ascoltare è un concetto di umiltà, è un attesa e un donarsi all’altro diverso da sé. È un essere presenti l’uno all’altro, significa avere un tempo e un luogo nel quale riflettere individualmente e, in seguito, con le varie équipe, collettivamente.

È un’apertura che affascina, ma al tempo stesso che spaventa perché può andare a smuovere pensieri e concetti da tempo sopiti e dei quali forse si è voluti mettere a tacere proprio perché ritenuti scomodi. Al tempo stesso incuriosisce. È un’apertura a meditazioni nel proprio intimo che certamente risuonano in ognuno di noi. Si aprono, anzi si spalancano scenari di storie impensabili fino a quando i nostri pazienti non ce le mettono davanti. I pazienti del mio reparto, anche solo per storia anagrafica, sono i custodi di racconti di vita passata, sono degli scrigni la cui nostra capacità dettata anche da un senso di curiosità, ma in primis di responsabilità e professionalità di cura possono trovare quella chiave che apra il contenitore fino a quel momento secretato.

E se quel racconto a noi regalato può farci male, talvolta ferirci, probabilmente il male più grande è inserire un distacco tra me e l’altro, e forse introdurre una frattura nel rapporto con sé stessi, creando un abisso in parte irrecuperabile, vuol dire creare un distacco che annienta la possibilità di interazione per una paura scatenata. Si corre quindi il rischio di appiattire le cure verso il paziente, di spersonalizzarle e ridurre il mio rapporto e le cure di un’intera degenza ad un atto non più di cura ma di mera meccanicità.
E allora narrazione come aggancio, come possibilità di inserimento in un percorso di cura che può riaprirsi e farsi maggiormente ricco di quel particolare consegnato a noi che può far smuovere risorse, sia della persona, che del suo entourage, quell’aggancio che può essere utile per risolvere una parte di un problema più ampio.

È proprio nell’ascolto di sé stessi e attraverso una conversazione con noi stessi che ognuno di noi trae senso decisivo per l’agire nel piano di cura, per orientare i desideri, le idee e le aspettative del paziente rielaborate da me professionista in chiave terapeutica. Agendo secondo questa modalità reputo che sia il soliloquio a consentire di rendere comprensibile l’esperienza interiore e sociale, che hanno un connotato di emozioni. Occorre guardare l’altro con quell’interesse alla persona che fa riscoprire in loro il vero valore, perché a causa della malattia molti si domandano il vero senso della vita in quell’istante, emergono degli interrogativi che possono essere spiazzanti in primis non per chi se li pone ma per noi curanti, che, se non li abbiamo mai affrontati, ci lasciano senza possibilità di replica. Occorre allora in quei frangenti, forse più che in altri, essere umili, essere leali con se stessi e con la persona che abbiamo davanti e attenti a non fornire risposte preconfezionate e vaghe. Lì si gioca la fiducia di un rapporto, si gioca la possibilità di essere curanti ascoltati, talora decisivi nelle richieste altrui. “Incontrare uno sguardo attento è il primo passo per uscire dal proprio individualismo talvolta limitante” così affermava un mio ex professore ordinario a Milano.

“La medicina narrativa è un’attenzione alle storie dei pazienti” questo afferma Antonio Virzì, presidente della società italiana di medicina narrativa. È un ascolto della sofferenza di chi mi sta di fronte. E questo ha un’utilità? È utile per una presa a carico? Certamente, come ha espresso chiaramente un mio collega clinico l’anno scorso durante la giornata internazionale dell’infermiere: “A me è servito per capirla meglio (la paziente), per conoscere meglio i suoi bisogni, per ideare con lei un piano di cura completo e taylorizzato; è la possibilità di aprire nuovi scenari di soluzioni di cura strutturare meglio il mio approccio e prendere a cuore diversamente la situazione, intervenendo coerentemente con gli altri professionisti”. Questa ha un’utilità nel cambiamento del modo di rapportarsi con il paziente agli aspetti di tipo didattico in una riscoperta del consegnargli qualcosa. Cambia qualcosa nel mio intervento nel momento in cui mi dovessi basare sulla clinica tralasciando la storia della paziente? Cambia, per fare un esempio, nel momento in cui in un paziente con sintomi ansiosi non mi limito al solo atto della somministrazione della terapia di riserva, ma se ho fatto un buon lavoro di ascolto e raccolta informativa della storia del paziente, posso intervenire con altre tecniche di rilassamento e riduzione dell’ansia che il paziente mi ha consegnato attraverso la sua storia. Il passaggio successivo è capire come posso rilevare l’efficacia del mio intervento attraverso la medicina narrativa: per questo è fondamentale inserire nell’impianto metodologico la misura di alcuni outcome. Ad esempio, a livello di interazione infermiere-paziente: la qualità della relazione, l’aderenza terapeutica, la qualità dei servizi ricevuti. A livello individuale sul paziente: la qualità di vita, salute fisica e mentale, presenza di ansia o sintomi depressivi, livello di autoefficacia. Questo discorso può essere esteso anche ai caregiver e a tutte le figure che ruotano attorno al paziente. Perché chi ha la SARS-CoV-2 è anche lui stesso un paziente come gli altri e gli devono essere garantite tutte le cure necessarie. Comprendenti lo spazio per una sua libera espressione.

Concludo la mia riflessione con una domanda “C’è una risposta all’abisso della sofferenza patita?” Di fronte a tale interrogativo una sola risposta probabilmente non basta non è sufficiente, e forse non basterebbero nemmeno un numero infinito di risposte date dagli altri, ma forse una possibilità è data dalla condivisione e il modo più umano e diretto per condividere è proprio quello della narrazione.

Lettera firmata

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 28 Marzo 2020
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