Calabrò: “L’innovazione è pensiero, non solo tecnologia”

Intervista ad Antonio Calabrò nuovo consigliere di amministrazione dell'università Liuc

Generico 2018

Dirige la Fondazione Pirelli, è vice presidente di Assolombarda, presidente di Museimpresa e da pochi giorni è anche consigliere di amministrazione della Liuc-università Cattaneo. Per Antonio Calabrò, docente universitario, scrittore e giornalista economico, la scelta di entrare nel cda dell’ateneo di Castellanza è «una sfida» che si deve reggere su due pilastri: «Innovazione e sviluppo dei territori». (foto tratta dal profilo twitter di Antonio Calabrò)

La Liuc è l’università fondata dagli industriali della provincia di Varese. Imprenditori che in quasi due secoli di storia hanno dimostrato che la capacità di innovare è un tratto distintivo della loro identità, così radicato, che viene dato quasi per scontato. Che cosa significa per lei la parola innovazione?
«Iniziamo con il dire cosa non è: l’innovazione non è soltanto una tecnologia. È un pensiero eccentrico che si traduce in un prodotto e servizio che con determinati costi è in grado di stare sul mercato. Oggi l’innovazione è un processo produttivo sostenibile, cioè con una bassissima impronta impattante, in grado di rendere la fabbrica un luogo bello e piacevole dove andare a lavorare. L’innovazione è una serie di relazioni industriali che si traducono in piani di welfare. È una scelta di governance con la presenza di donne, è inclusione sociale. In alcuni casi può essere anche un linguaggio di marketing. Ricordo Carl Lewis, il campione americano di velocità che si fece ritrarre ai blocchi di partenza con i tacchi a spillo rossi (lo scatto fotografico fu di Annie Leibovitz, ndr) accompagnato dallo slogan della Pirelli: “La potenza è nulla senza il controllo”, perché esiste una relazione molto stretta tra controllo e innovazione. Innovazione è design, è lavorare sui nuovi mercati. Insomma, è tutto quello che noi italiani abbiamo sempre fatto anche se non lo sapevamo».

Lei ha da poco pubblicato per Egea un libro dal titolo “Oltre la fragilità”. Le imprese italiane sono un esempio di fragilità, perennemente in lotta con un sistema che le penalizza sul piano del fisco, dei costi energetici, della certezza del diritto, dell’accesso al credito. Com’è possibile che l’Italia sia il secondo paese manifatturiero in Europa, appena dietro ai campioni tedeschi?
«In queste condizioni si sopravvive, per vivere bisogna fare meglio. Un conto è prendere atto di una condizione, altra cosa invece è subirla. È la consapevolezza di fare impresa nonostante tutto. Noi siamo nei territori dove ci sono le radici dell’industria italiana. C’è una frase dello storico dell’economia Carlo Maria Cipolla che sintetizza perfettamente questa condizione: “Gli italiani sono abituati, fin dal Medioevo, a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”. Le cose belle, i prodotti di qualità, i territori e i campanili sono gli elementi che hanno generato questo primato».

La fabbrica bella, secondo lei, è anche felice?
«È sicuramente meno infelice della fabbrica brutta. Se intendiamo la felicità come assenza di conflitti, direi di no. Le fabbriche sono luoghi estremamente stimolanti proprio perché si compongono conflitti e se ne aprono di nuovi: la fabbrica è movimento. Non mi preoccuperei però della felicità. Io lavoro in un posto che si chiama Fondazione Pirelli, un edificio che ha conservato la vecchia torre di raffreddamento della fabbrica che serviva a raffreddare i vapori. Quindi qui eravamo già green, quando il green non esisteva ancora. Percorrere quell’itinerario ogni giorno per me è già un pezzetto della felicità perché sono all’interno di un luogo architettonicamente bello e nuovo, una struttura che continua a pensare e a progettare il futuro senza dimenticare le sue radici. C’è uno spazio di fabbrica felice che genera una condizione di benessere, ma poi c’è anche un pezzo di durezza o se vogliamo di infelicità. Nella fabbrica c’è la vita».

Michele Mancino
michele.mancino@varesenews.it

Il lettore merita rispetto. Ecco perché racconto i fatti usando un linguaggio democratico, non mi innamoro delle parole, studio tanto e chiedo scusa quando sbaglio.

Pubblicato il 09 Luglio 2020
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