Conoscere il moderno per restaurarlo: la lezione di Giovanni Carbonara a Thinking Varese

Dal grattacielo Pirelli alla casa del Fascio, al Maxxi Di Zaha Hadid: nell'incontro di Thinking Varese il perchè certi edifici vanno restaurati, ma innanzitutto capiti

Generica 2020

Si fa presto a dire restauro. Ma, nel concreto, non è una parola semplice: significa riportare l’oggetto a come era prima, o renderlo fruibile come prima? Bisogna privilegare la funzionalità o l’aspetto? E’ una questione importante e delicata, ancora di più quando l’”oggetto da restaurare” è qualcosa che non è percepito ancora come “storico”, ma solo come “vecchio” o “obsoleto”.

E’ il caso di molti edifici della seconda metà del novecento, che hanno il “difetto”, per esempio, di essere concepiti in epoca fascista, o con materiali, come il cemento armato, che non hanno più lo stesso appeal di un tempo. Tra di loro però, ci sono autentiche perle, che meritano un restauro e, nel futuro, una manutenzione più attenta.

E’ quello che ha illustrato, nel webinar dell’Ordine degli Architetti di Varese condotto da Angela Baila che rientra nella rassegna “Thinking Varese 2020”, Giovanni Carbonara: professore emerito di Restauro architettonico nell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” , già direttore della ‘Scuola di Specializzazione in beni architettonici e del paesaggio’ e coordinatore del Dottorato di ricerca in ‘Conservazione dei beni architettonici’ nella Facoltà di Architettura della medesima Università, nonchè commissario CIMAE per la costruzione e il restauro delle ambasciate d’Italia all’estero; componente della Commissione istituita dalla Rev. Fabbrica di San Pietro in Vaticano per il restauro della facciata della Basilica; consulente della Regione Lombardia per il restauro del grattacielo Pirelli di Milano.

E proprio il restauro del grattacielo Pirelli dopo lo schianto dell’aereo che ne ha sfondato due dei piani superiori è stato uno degli esempi fatti dal docente alla platea di circa 200 architetti collegati: «Inizialmente, Regione Lombardia era dell’opinione che si dovesse “cogliere l’occasione” per cambiare il grattacielo profondamente, aggiungendo particolari più moderni. Fu Maria Antonietta Crippa, che fece poi parte del comitato tecnico scientifico che studiò e aiutò la realizzazione – in meno di due anni – del restauro conservativo, a convincere il presidente della regione di allora, Roberto Formigoni, a non stravolgerlo, ma conservarlo così. Gli spiegò, soprattutto, che quella non era un’imitazione dei grattacieli americani, ma l’espressione del genio e della manifattura lombarda».

Ridare l’aspetto originale al capolavoro di Giò Ponti non fu un lavoro semplice, anche se ben poco fu sostituito dopo lo schianto del 2002: persino i soffitti deformati dall’esplosione non furono cambiati, ma solo rafforzati. E, ora, ogni piccolo pezzo di quel grattacielo è stato catalogato come parte di un monumento.

Ma tra gli edifici – e gli architetti – citati da Carbonara, ce ne sono anche di abbandonati o stravolti dal disturbo per l’ideologia che li ha creati: quelli realizzati in epoca fascista. E tra i primi è ovviamente citata la Casa del Fascio di Como, a firma Giuseppe Terragni: inizialmente “rabberciato” alla bell’e e meglio, e solo in seguito riconosciuto e restaurato seguendo la sua oggettiva bellezza e modernità. O come è successo per il palazzo ex Gil (“Gioventù Italiana del Littorio”) di Campobasso, pregevole opera razionalista dell’architetto Domenico Filippone, letteralmente sventrato dopo la guerra e recentemente restaurato secondo la filosofia dell’autore: ora è la casa della cultura del capoluogo del Molise.

«Non esiste una strada per il restauro: esistono dei ragionamenti che si fanno per ripristinare un monumento o un oggetto – ha spiegato Carbonara – Per procedere con un restauro non è sufficiente seguire una linea di comportamenti, è necessario innanzitutto un processo di comprensione dell’opera, senza il quale non si possono risolvere i problemi che si pongono durante i lavori».

Lavori che possono essere anche recentissimi, proprio per la inaspettata delicatezza del cemento: «Un esempio è il recente Maxxi di Roma, di Zaha Hadid. Completato nel 2010 esprime il desiderio dell’architetta di utilizzare dei cementi che dessero l’idea di fluidità: materiali però che si sono presto corrotti. Un intervento di manutenzione e restauro della facciata ne ha però restituito la poetica».

La parola chiave, per Carbonara, è in realtà, più che restauro, manutenzione: «Non ci sono monumenti, anche antichi, corrotti se sono rimasti vivi e accuditi nel tempo: pensate al Pantheon, o alle chiese più antiche di Roma. Il lavoro di restauro interviene quando un edificio è stato abbandonato nel tempo. La parola chiave, quella che previene tutto, è quindi manutenzione».

Stefania Radman
stefania.radman@varesenews.it

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Pubblicato il 22 Ottobre 2020
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