Spalloni, finanzieri e partigiani in Val Vigezzo, nello strano autunno del ’44
Durante la Repubblica dell'Ossola gli uomini della Guardia di Finanza passarono nelle file della Resistenza: il figlio di uno di loro racconta quei giorni, l'esilio del padre, la solidarietà degli "spalloni"
«Le lettere di mio padre, finanziere internato in Svizzera, arrivavano a noi grazie agli spalloni, i contrabbandieri». Era una ben strana alleanza, quella in quei giorni del 1944-45, nella Val Vigezzo divenuta teatro di guerra tra fascisti e partigiani.
Nei “quaranta giorni di libertà” della Repubblica dell’Ossola gli uomini della Guardia di Finanza passarono, un po’ fortunosamente, dalla parte della Resistenza e parteciparono alla battaglia dei Bagni di Craveggia, il giorno in cui i fascisti minacciarono d’invadere la Svizzera. E vissero poi l’esilio di mesi in Svizzera.
Gianfranco Porcu ha la val Vigezzo nel cuore, anche se oggi – anzi da 75 anni – vive in Sardegna. Suo padre, Antonio Porcu, era un appuntato della Guardia di Finanza, assegnato prima alla casermetta di Re, poi alla tenenza di Santa Maria Maggiore. «A Santa Maria ho fatto tutte le scuole elementari» dice Gianfranco, che nella mente e nei racconti ha il ricordo nitido e dettagliato dei mesi di guerra che sconvolsero l’Ossola e travolsero anche l’esistenza dei finanzieri e delle loro famiglie (nella foto Gianfranco è il bimbo, il padre è il finanziere sulla destra).
Erano una ventina, i finanzieri di Santa Maria. «Tutti meridianali, sardi, siciliani. C’era anche un veneto, Bernardis, che aveva la faccia da bambino, andavamo a cercare castagne insieme».
Giorni sereni, prima della guerra, nonostante l’appuntato Antonio Porcu, classe 1905, dovesse lottare contro gli “spalloni”. «Creveggia, Toceno, Santa Maria: erano tutti contrabbandieri di sale e sigarette. Le “linee” del contrabbando che scendevano dal Bagno di Craveggia confluivano all’Alpe Blitz: la Finanza si appostava lì per trovarli… si faceva al gatto e al topo. Ogni tanto i contrabbandieri mi avvicinavano: mi davano sigarette da portare a mio padre, ma lui non le accettava».
L’Alpe Blitz oggiLa guerra scatenata da Mussolini nel 1940 non cambiò, inizialmente, lo scenario della Val Vigezzo. «Loro facevano i doganieri: erano armati, avevano mitragliatori e fucili ’91 Ridotto. Ricordo che avevano cambiato le cartucce leggere con il calibro più grosso». Nel 1943, però, arrivarono i tedeschi.
La Guardia di Finanza nel turbine della guerra civile
L’8 settembre 1943, all’annuncio dell’armistizio, le truppe tedesche della Wehrmacht e delle SS iniziarono a disarmare, catturare e deportare in Germania decine di migliaia di soldati italiani, lasciati per lo più senza ordini e allo sbando, dopo la fuga del Re da Roma. I tedeschi non deportarono, almeno inizialmente, i carabinieri e la Guardia di Finanza (anche se poi migliaia di carabinieri di Roma furono inviati nei campi di prigionia).
I finanzieri, disarmati, furono tenuti in servizio, per i loro compiti di polizia economica e per reprimere la “borsa nera” di generi alimentari nelle città.
«Un giorno a Santa Maria Maggiore sono arrivati i tedeschi, che hanno occupato l’albergo Oscella: hanno disarmato la Finanza, di armi e munizioni. Mi ricordo che per mio padre era un affronto che gli avessero tolto le stellette. Poi, con la formazione della Repubblica di Salò, hanno restituito le armi e loro hanno ripreso il servizio».
Le Fiamme Gialle tornarono ai loro compiti istituzionali, guardate a vista dalla Zollgrenzschutz, le guardie di confine tedesche che presero controllo dei valichi, dando la caccia – tra l’altro – agli ebrei in fuga che spalloni e ferrovieri della Vigezzina facevano passare. Nel frattempo i Comandi della Finanza avevano contatto con la Resistenza e con il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, che stava a Milano. In alcuni casi singoli finanzieri divennero partigiani, come fece in Val Vigezzo Emilio Murciano (celebre anche il caso di Umberto Lazzaro Bill, l’uomo che riconobbe e catturò Mussolini in fuga). In altri casi passarono alle file dei partigiane in piccoli gruppi compatti, ma il grosso rimase in servizio: senza impegnarsi in attività contro la Resistenza e anzi in diversi casi collaborando in modo clandestino, come ad esempio fece tra Cusio e Ossola il sardo Barchisio Mastinu.
Inevitabile era la diffidenza tedesca: ad agosto del 1944 i finanzieri furono allontanati da tutti i valichi di confine e, di fronte al rischio di una deportazione in Germania come era accaduto per parte dei carabinieri, si arrivò a ipotizzare la creazione di formazione partigiana autonoma in Ossola, da affidare al comando del colonnello Alfredo Malgeri, comandante della Legione di Milano.
La Guardia di Finanza nella Repubblica dell’Ossola
Proprio in quel periodo, a inizio settembre 1944, le forze partigiane delle brigate autonome Cesare Battisti e Perotti – avanzando da Cannobio – liberarono la Val Vigezzo, la “scintilla” che consentì poi di sloggiare i nazifascisti da Domodossola. Nella Repubblica dell’Ossola, insieme alle guardie municipali di Domodossola e altri uomini, i finanzieri confluirono nella “Guardia nazionale”, comandata dal colonnello in pensione Attilio Moneta di Malesco e incaricata del mantenimento dell’ordine pubblico.
«La Finanza in quei giorni è stata presa in mezzo», sintetizza ancora il figlio dell’appuntato Antonio Porcu. «Molti dei partigiani di Moscatelli erano ex contrabbandieri, i finanzieri si sono ritrovati a fare servizio insieme». Per un mese l’Ossola visse un periodo straordinario e contemporaneamente di ritorno a una parziale normalità, con le luci riaccese dopo quattro anni di oscuramento imposto dalla guerra.
Uno scenario strano, visto con gli occhi di un bambino come era Gianfranco Porcu: «Un giorno nella piazzetta del Bar Gennari ho visto un’auto che aveva il cartellino del “Tenente Franco”, uno della Matteotti: mi sono avvicinato gli ho detto “Anche io mi chiamo Franco”. Mi ricordo le partite a calcio nei prati vicino a Santa Maria, tra i comunisti, quelli di Matteotti e quelli di Di Dio, che gli altri chiamavano “l’opera pia”». I rischi erano però erano dietro l’angolo: «I finanzieri facevano servizio al posto di blocco a Santa Maria, all’Oscella. Una notte passò una macchina, una raffica ha falciato un finanziere, forse l’avevano scambiato per un fascista, per la divisa in grigioverde. Il capitano Arcangeli che comandava a Santa Maria reagì e minacciò di ritirare gli uomini».
L’esperimento della Zona Libera dell’Ossola durò 40 giorni. Nei primi giorni di ottobre i nazifascisti passarono al contrattacco, con oltre 4mila uomini appoggiati dall’artiglieria: mentre nella piana del fiume Toce i partigiani diedero del filo da torcere, in val Cannobina tedeschi e fascisti avanzarono veloci, un po’ per indisciplina dei reparti partigiani (nella “Cesare Battisti” e nella “General Perotti” erano stati arruolati anche molti ragazzi giovanissimi e non addestrati), un po’ per il maltempo che rese difficile i collegamenti e l’osservazione dei movimenti nemici.
Antonio Porcu, della Guardia di Finanza, in una foto di famiglia mentre imbraccia un fucile ’91L’11 di ottobre il fronte della Cannobina cedette, il 12 ottobre alla gola di Finero morirono anche Alfredo Di Dio, il comandante dei partigiani “azzurri” della Valtoce, e il colonnello Moneta.
I partigiani si ritirarono in modo disordinato e la paura spinse anche molti abitanti della Val Vigezzo (soprattutto chi si era schierato con convinzione per la libertà) a cercare riparo in Svizzera. «Anche i finanzieri sono partiti, dopo essersi raccolti in piazza di Santa Maria. Hanno preso armi e bagagli e mezzo sacchetto di riso a testa. Mio padre ci voleva portare con lui, ma mia sorella aveva quattro anni e mia madre non ha voluto» ricorda ancora Gianfranco Porcu. Quasi ritornando nei panni del bambino intraprendente che era, aggiunge: «Io ero pronto ad andare».
Battaglia sul confine: lo scontro ai Bagni di Craveggia
«Dietro c’erano le truppe fasciste che arrivavano da Finero: era una corsa a chi arrivava prima ai Bagni di Craveggia. Lì c’era una casermetta della Finanza, ma mio padre mi raccontava che era già stata vuotata di coperte e cappotti». Lì la colonna viene bloccata dai soldati svizzeri, che avevano ordini precisi: i civili entrano, i partigiani potranno entrare solo quando saranno in pericolo di vita.
Al 17 di ottobre i fascisti arrivarono fin nella conca tra i monti, tra Vigezzo e valle Onsernone: «Quella della X Mas erano ben armati: loro erano in alto, sparavano in giù, perché i Bagni rimanevano in basso, nella valletta. Gli svizzeri hanno protestato, ma i fascisti hanno continuato a sparare, hanno colpito anche chi era già in territorio svizzero. Vicino a mio padre c’era un comandante, Bianchi, che venne ferito all’osso sacro» (nei primi minuti del video qui sotto: Adriano Bianchi racconta la battaglia del 17-18 ottobre 1944, mentre visita i Bagni di Craveggia).
«Mio padre disse: “Qui ci ammazzano tutti”, ha sparato con il suo ’91 contro i fascisti, ne ha colpito uno e l’ha visto cadere sopra la mitragliatrice. Poi finalmente hanno ricevuto l’ordine di entrare in Svizzera». Il fuoco dei militi li inseguì anche oltre la linea di confine, i proiettili uccisero il tenente Federico Marescotti. Una volta oltre frontiera, «gli svizzeri li hanno portati via, perché i fascisti volevano entrare a prenderseli». Il capitano elvetico Augusto Rima, che già aveva suggerito ai partigiani come schierarsi, ottenne che in valle Onsernone venissero schierati i granatieri, dotati anche di armi pesanti, per evitare che i fascisti sconfinassero (i tedeschi, invece, avevano già desistito).
Leggi anche: Il giorno in cui si rischiò un’invasione della Svizzera dall’Italia
Dalla prigionia alla Liberazione
I partigiani espatriati vennero accolti alla bell’e meglio in zona («Mica in albergo: sono finiti nelle stalle, sulla paglia») per essere poi trasferiti nei campi d’internamento predisposti dalla Svizzera per i combattenti stranieri. Il finanziere Antonio Porcu fu trasferito a Locarno, poi a Gurnigel e a Batterkinden, nel cantone di Berna, «in quella zona lavorava anche nei campi per avere di più da mangiare».
La storia di Antonio Porcu, trasmessa dal figlio, ci racconta anche l’incredibile, umana solidarietà che in quei mesi consentì ai finanzieri di tenere i rapporti con le loro famiglie rimaste in Italia: «Sono rimasti in contatto tramite la signora Aida dei Bagni di Craveggia (Aida Tarabori, cittadina elvetica, ndr): loro scrivevano una lettera e la spedivano in doppia busta. Su quella più grande c’era l’indirizzo della signora Ida: quando arrivava ai Bagni di Craveggia lei l’apriva e dentro c’era la busta piccola con l’indirizzo di casa nostra. Le lettere venivano date ai contrabbandieri, gli “spalloni” che le portavano giù». Porcu e gli altri finanzieri vennero anche condannati a morte per diserzione, dal tribunale fascista di Torino.
Nel duro inverno ’44-45, il comando della Guardia di Finanza nel frattempo aveva rinunciato all’idea di una brigata partigiana delle Fiamme Gialle, aveva rafforzato l’impiego in attività di cospirazione e spionaggio e soprattutto aveva concordato con il CNLAI – la massima autorità della Resistenza – l’impiego come reparto organizzato per la spallata finale al fascismo.
Il 25 aprile 1945 scoppiò l’insurrezione in Nord Italia: all’alba del 26 i battaglioni della Guardia di Finanza di Milano uscirono dalla loro caserma e, come previsto nei piani, occuparono la Prefettura e altre sedi del potere repubblichino: un contributo fondamentale per la Liberazione di Milano e per la transizione dell’amministrazione civile di una città popolosa e ferita da cinque anni di guerra.
Il finanziere Antonio Porcu rientrò dalla Svizzera nell’agosto 1945, «coperto di pidocchi» e con la condanna a morte per diserzione ancora pendente (ovviamente poi cancellata). Qualche guaio lo passò anche la famiglia, come racconta – senza paura, a distanza di anni – il figlio Gianfranco: «Dopo la fuga dei fascisti nel settembre ’44 la gente era entrata nelle ville dei ricchi di Santa Maria, siamo andati anche noi e i paesani poi ci hanno denunciato per saccheggio. Nel 1945 arrivò un partigiano armato e con le bombe a mano alla cintura e ci disse: “Venite con noi”. Gli ho detto: “Avevamo fame, abbiamo rubato solo le patate”. Poi è finita in niente, ma quando l’ha saputo mio padre… voleva fucilarci lui» racconta con un sorriso.
La guerra era finita davvero. «E mio padre ha deciso di andare in Sardegna. Alla fine del 1945 siamo partiti per andare a Cagliari: si viaggiava di notte, i ponti erano ancora distrutti e c’era in giro di tutto, per fortuna mio padre era in divisa. A Civitavecchia siamo partiti con il vapore, come si diceva allora, non c’erano mica i traghetti. Poi mio padre ha fatto servizio a Cagliari, a Bosa, infine a Sassari dove si è congedato».
Gianfranco Porcu – 86 anni – vive ancora a Sassari, anche se mantiene i contatti con la Val Vigezzo: ogni foto su Facebook evoca un racconto di quegli anni lontani, aspri e insieme così ricchi di avvenimenti. E ancora oggi, quando vede una foto dell’Alpe Blitz, gli vengono in mente gli spalloni: gli “avversari” del finanziere Antonio Porcu, che portavano ai suoi bambini le lettere del padre dalla Svizzera.
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