Essere un fisioterapista ai tempi del Covid: “Un’esperienza intensa”

Dialogo con Matteo Fulginiti, fisioterapista che da cinque anni lavora in provincia, in studio e in Rsa

Matteo Fulginiti

Matteo Fulginiti è un giovane fisioterapista che da cinque anni lavora a Varese e provincia, con una vera e solida passione per il suo lavoro.

Iniziando con un numero ristretto di visite domiciliari, in poco tempo è riuscito ad aumentare il numero di pazienti da seguire e oggi, oltre a offrire visite a domicilio, è fisioterapista presso una RSA a Cuvio, dove segue gli ospiti anziani nella riabilitazione e attività motoria.

Ha raccontato a Varesenews la realtà di un operatore sanitario fisioterapista ai tempi del coronavirus, analizzando le situazioni della prima e seconda ondata, sia per quanto riguarda i pazienti domiciliari, sia che per il lavoro all’interno della casa di riposo.

Quando la pandemia ha travolto l’Italia, per una struttura come quella in cui lavori non deve essere stato semplice. Come avete affrontato la situazione della prima ondata e come state gestendo il lavoro adesso, durante la seconda ondata?
«Quando alla casa di riposo è arrivato l’annuncio del primo lockdown, in accordo con il direttore gestionale della struttura e il direttore sanitario, non essendoci materiale sanitario di protezione disponibile per tutti, è stata presa la decisione di chiudere la palestra a mia disposizione per seguire i pazienti e di distribuire i dispositivi di protezione individuali al personale sanitario che lavorava a stretto contatto con gli ospiti del centro. A quel punto ho scelto di interrompere per nove settimane la mia attività di fisioterapista, decisione
supportata sia dall’istituto superiore di sanità, che dal mio ordine, il quale ha richiesto che la fisioterapia non essenziale fosse sospesa. In casa di riposo non avevo casi gravi da seguire con necessità impellenti. Anche nella struttura è stato necessario effettuare un isolamento: ci sono stati trenta positivi tra gli ospiti, quattro tra le fila del personale e qualche decesso. Tanti positivi e pochi dispositivi di protezione. Nel centro hanno gestito la prima ondata in maniera eccellente, considerando che la struttura non era adatta, né tantomeno preparata ad un’emergenza di questo calibro. Dopo le nove settimane in cui avevo bloccato il mio lavoro, i casi positivi erano stati tutti isolati. E’ stato adibito un piano della struttura per i pazienti covid. Come le situazioni descritte negli ospedali, ma ricreato in una casa di riposo con personale sanitario non specializzato su questo tipo di emergenze. A maggio la situazione era contenuta. Tutti i piani erano liberi e sanificati, tranne l’ultimo, dedicato, appunto, ai pazienti covid. A quel punto ho ricominciato a lavorare, facendo particolare attenzione all’accesso alla struttura, aggiungendo strati di dispositivi di sicurezza man mano che si accedeva ai vari piani, vestendosi con i dodici passaggi necessari e obbligatori per poter lavorare in sicurezza. Per quanto riguarda la fisioterapia, ho ricominciato con il minimo necessario. Bisogna pensare che gli ospiti della struttura erano stati chiusi per nove settimane nelle loro stanze. Noi tutti eravamo chiusi nelle nostre case, mentre per quelle persone anziane, la struttura è la loro casa, e durante il lockdown i saloni comuni non erano utilizzabili, i pasti erano somministrati tutti a letto e quindi la loro casa si è ristretta alla propria camera. E’ stato un lavoro faticoso e impegnativo soprattutto durante l’estate, con il caldo afoso e le protezioni non traspiranti. Gestita egregiamente, tanto da fare i complimenti. Non abbiamo avuto nessun caso positivo da luglio. Ora è aumentato lo screening, i tamponi e i test sierologici non sono più mensili, ma settimanali e la bardatura, essendo una situazione covid-free all’interno della struttura, non è più necessaria. Noi continuiamo ad usare mascherine ffp2 e guanti,  indossando calzari e protezioni ogni qual volta sia necessario entrare in reparti particolari».

Come hai gestito, invece, i pazienti che segui a domicilio?
«Quando è scoppiato il caos ed eravamo già in dirittura d’arrivo verso il primo lockdown, anticipando quasi il presidente Conte, ho avvisato tutti i miei clienti che a mio parere non c’erano più le condizioni per poter continuare a lavorare ed era necessario interrompere attività privata. Sia per buon senso, che per timore di essere un potenziale veicolo. Adesso gestisco i miei pazienti come nella casa di riposo. Guanti, mascherina, disinfettanti. Chiedo al paziente di indossare sempre la mascherina e di arieggiare bene gli ambienti. Disinfetto quello che tocco quando vado via. Sto attendo anche ai dettagli, come ad esempio disinfettando sempre la macchina e cerco di lavorare con persone che, sono certo, possiedono un’alta percentuale di possibilità di essere sane. Ho ridotto il numero di persone da seguire, e oggettivamente sto effettuando il 50% di quello che potrebbe essere un ritmo normale. Cerco di tutelarmi, faccio lo screening alla casa di riposo ogni settimana, viaggio sapendo di essere negativo, sperando sempre di non ammalarmi, come tutti del resto».

Durante le nove settimane in cui hai smesso di lavorare, in che modo sei stato tutelato?
«Avendo un contratto in partita IVA ho avuto una riduzione drastica del mio monte ore, che inevitabilmente ha portato alla riduzione del mio stipendio circa dell’80%. Ho usufruito degli aiuti statali che sono arrivati alle partite IVA come me, i famosi 600 euro rilasciati dallo Stato. Non avendo grandi spese
me la sono cavata. Passati quei due mesi lo stipendio è tornato regolare. Appena ho potuto ricominciare l’ho fatto, con molta attenzione, dedizione e fatica, ma sempre con passione».

Avendo vissuto questa situazione di emergenza in prima persona, essendo parte del personale di una struttura sanitaria e facendo un lavoro che ti mette inevitabilmente a contatto con tante persone, molte delle quali a rischio, come pensi che stia affrontando la pandemia la città di Varese?
«A mio parere, dal punto di vista sanitario, Varese non sta gestendo male la situazione. Sono stati in grado di creare posti letto anche in ambienti dove non si pensava fosse possibile. Ci saremmo, forse, potuti preparare prima alla seconda ondata, ammortizzandola meglio. Forse il vero problema sono le persone: durante l’estate abbiamo preso sottogamba il virus, perché il desiderio di tutti era farlo diventare un periodo tranquillo e il più normale possibile, ma ora stiamo pagando l’aver abbassato la guardia. È anche
vero che realtà a noi molto vicine, come la Svizzera, che inevitabilmente coinvolge i paesi vicini al confine, dove molti sono frontalieri, affrontano la pandemia in modo completamente differente: vi sono norme e dispositivi diversi. Forse questo, soprattutto nella nostra area, ci porta ad accusare di più il colpo. Ripeto, la stiamo gestendo bene. Forse qualche negazionista in meno farebbe la differenza, soprattutto perché libererebbe qualche posto letto in più. Negare di fronte all’evidenza è il comportamento più stupido da adottare data la realtà vissuta, la facilità con cui il virus ti attacca e velocemente aggrava le tue condizioni».

Essendo un lavoro totalizzante e a stretto contatto con pazienti anziani, a quali rinunce sei andato incontro?
«Quello che ho visto accadere nella casa di riposo, vedere quella comunità di anziani, dove tutti si conoscono, dover sopportare il peso di osservare un giorno l’amico che cammina tranquillo per i corridoi della struttura e dopo solo dieci giorni il suo letto vuoto e i suoi averi che vengono portati via in sacchi
perché è positivo, è qualcosa di profondamente doloroso e toccante. E bisogna sempre ricordare che quelle persone sono nonni, genitori, mariti e mogli di qualcuno che nel peggiore dei casi riceve una brutta telefonata e deve affrontare un dolore. Per poter garantire la tutela dei pazienti, soprattutto in un ambiente di lavoro con persone ad alto rischio, sono stato costretto a rinunciare alla vita sociale, a vedere sia gli amici che la famiglia. Soprattutto, ho rinunciato al rugby, una realtà importante e da sempre presente nella mia vita. Perciò, non mi sono tesserato come solitamente faccio da 11 anni a questa parte. E’ stata una scelta morale, etica, presa al fine di non mettere in pericolo la vita di altre persone: non volevo rischiare di portare il virus nella struttura o al contrario, non volevo mettere in pericolo la vita dei miei compagni di squadra. E’ stata una decisione che mi ha tormentato, ma la paura di essere l’inizio di un

di
Pubblicato il 08 Dicembre 2020
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