La vita su a Monteviasco, lontani dal mondo e nel villaggio innevato

L’immunità di gregge costruita da isolamento, lavoro e osservazione della natura. Una lezione preziosa che supera l’isolamento

Un puntino scuro che si fa strada fra la neve come fa un bruco in un’enorme mela di ghiaccio.

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Dall’alto una botta di bianco che si apre fra le nuvole, e quella figura minuta che a mano a mano che la distanza del drone si accorcia prende le sembianze di un uomo: ha in mano un badile e si guadagna la strada a pochi metri dall’ingresso del cimitero.

Quell’uomo è Valter Bianchi di anni 67 (foto qui sotto), pensionato, e ha deciso di vivere quassù a Monteviasco gli anni del riposo, che riposo non è. Piuttosto guardandolo mentre si fuma una sigaretta in un momento di pausa viene da pensare a un «lavoro contemplativo», una «fatica rasserenante» dove ogni rumore è una sorpresa e una semplice occhiata trasforma il momento nell’eternità fatta di valli imbiancate e tetti di ardesia.

«Dici che non c’è niente quassù? Guardati attorno, allora», sembra pensare. Paradiso.

Le giornate passano così, tra lavoro nelle poche ore concesse di giorno dal forte gelo, e qualche sporadica chiacchiera, una telefonata, qualche messaggio: «Stai bene? Hai lavorato? Dai dopo passo». Visitatori, non ce ne sono: arrivare già è fatica, e poi è pericoloso camminare sui gradoni senza i ramponi da neve, si rischia di scivolare e bisogna attaccarsi ai parapetti di legno e per mettere un piede di fronte all’altro è meglio sfruttare quelle cenge formate dal ritirarsi della neve che però fatica a lasciare posto alla pietra: non se ne vuole andare, del resto è la padrona di casa in questa stagione.

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A dire il vero in paese una funivia in funzione c’è, peccato sia quella montata nel presepe custodito nella chiesa in pieno centro paese (da non confondere – guai – col santuario) da dove si gode di uno spettacolare balcone sulla valle: in faccia la prima casa di Viasco e poi l’intero borgo, poco più a destra le cime delle Forcora e degli ultimi paesini italiani prima del confine di stato di Indemini.

Tutto fermo, gelato, e allora non resta che schiacciare il pulsante e godersi, a -3, le luci della natività che si accendono, col filo del modellino che si tende e così la cabina gialla parte per raggiungere la sua destinazione di cartapesta. Sotto, nel presepe, le statuine con le mascherine e qualche cartello fra le pecorelle che accenna a un sorriso: «Immunità di gregge».

Queste due parole sono alla fine il senso di una giornata passata in questa minuscola comunità fatta ora di 6 persone, una di meno rispetto a qualche settimana fa quando la storia di Lucia che cambia l’acqua ai fiori del cimitero è diventata un caso nazionale: al tavolone di legno della sua casa che nel cuore del paese ha ancora le luci di Natale si sono seduti reporter da mezzo mondo, la Rai e gli amici di sempre, pochi ma buoni e che in paese, e del paese, si curano da soli: immunità di gregge.

Non è un caso che la moka di Lucia Cassina (foto qui sotto) sia proprio da sei tazzine. Sono quelle caffettiere in alluminio col manico nero che si trovano nelle stazioncine dei carabinieri o custodite dentro le credenze di baite in montagna frequentate dalle comitive di ragazzi magari in gita con la parrocchia nei bei tempi prima della pandemia: litri di passata di pomodoro e chili di pasta e poi arrivava lei, la grande caffettiera che metteva tutto a posto.

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E mentre Lucia racconta, e racconta, e racconta dei tempi passati, di quando d’estate i villeggianti erano a centinaia, e di quanto questo posto attiri e riesca a convincere chi ci viene una prima volta a ritornarci, e cosa insegna vivere in questo luogo isolato e senza comodità, a quel punto salta fuori la faccenda del nido. Sul tavolino all’ingresso dove c’è anche un bel mazzo di timo da mettere sotto vetro, c’è un nido di uccello.

«È di un merlo, ma guardi com’è fatto». Fra i fili d’erba secca compaiono anche i nastrini di plastica sottili, quelli per chiudere i sacchi dell’immondizia. È purtroppo una cosa molto comune trovare i nidi fatti in questo modo, ma quassù sospesi in mezzo al niente suona come un oltraggio.

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Una sorta di reliquia della natura conservata da Lucia: «Questo nido lo conservo per mostrarlo ai più piccoli, per far capire loro l’importanza di un singolo gesto, di un singolo pezzetto di plastica che lasciamo in giro, di ogni nostra azione. Credo che alla fine sia questo il più grande insegnamento che ho imparato vivendo quassù. E quando torneremo ad essere collegati col resto del mondo, beh, sarà un motivo in più per continuare a parlarne».

Andrea Camurani
andrea.camurani@varesenews.it

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Pubblicato il 20 Gennaio 2021
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