Sciascia e i bambini: ieri carusi, oggi zombi digitali

Oggi è il centenario della nascita del grande scrittore siciliano. La sua storia familiare è strettamente legata alla dura realtà delle zolfatare dove lavorarono il nonno, il padre e il fratello

Generica 2020

Oggi è il centenario della nascita di Leonardo Sciascia, nato a Racalmuto (Ag) da Pasquale Sciascia, impiegato, e Genoveffa Martorelli, casalinga.
La storia di Sciascia è radicata nello zolfo. Il nonno Leonardo era stato prima caruso, e poi capomastro e amministratore nelle miniere locali; il padre, amministratore in una zolfara di Àssaro, insieme al figlio minore, fratello di Leonardo, perito minerario (entrambi con fine tragica: suicida il giovane Giuseppe; in carcere per tentato omicidio il padre). «Senza l’avventura della zolfara non ci sarebbe stata l’avventura dello scrivere, del raccontare: per Pirandello, Alessio di Giovanni, Rosso di San Secondo, Nino Savarese, Francesco Lanza. E per noi» scrive  Sciascia.

Senza lo zolfo non si potrebbe spiegare la sua penetrante capacità di lettura della realtà, la sua indignazione quando un uomo o un sistema esercita violenza su un altro uomo, su una minoranza, su una società.

I due studiosi Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino nella loro “Inchiesta in Sicilia” del 1876 alzano per la prima volta un velo sulla terribile realtà delle zolfatare. Bambini (“carusi”) di cinque, sei, sette anni che che trasportano sulle loro spalle il carico di zolfo dalla profondità fino alla superficie: «Vedemmo una schiera di questi carusi che usciva dalla bocca di questa galleria dove la temperatura era caldissima… Nudi affatto, grondando sudore, e contratti sotto i gravissimi pesi che portavano, dopo essersi arrampicati su, in quella temperatura caldissima, per una salita di un centinaio di metri sotto terra quei corpicini stanchi ed estenuati uscivano all’aria aperta, dove dovevano percorrere un’altra cinquantina di metri, esposti a un vento ghiaccio».

La Sicilia nel 1899 fornisce  l’80% dello zolfo mondiale. Lo scrittore americano Booker T. Washington così descrive quel mondo: «Io non posso adesso sapere fino a che punto esista un inferno fisico nell’altro mondo, ma una miniera di zolfo in Sicilia è la cosa più vicina all’inferno che mi aspetto di vedere in questa vita».

Sono passati cento anni e ora, con l’accelerazione Covid-19, i bambini rischiano di diventare schiavi digitali. Le raccomandazioni della Società Italiana di Pediatria del 2018 sembrano preistoriche: «No a smartphone e tablet prima dei due anni, durante i pasti e prima di andare a dormire. Limitare l’uso a massimo 1 ora al giorno nei bambini di età compresa tra i 2 e i 5 anni e al massimo 2 ore al giorno per quelli di età compresa tra i 5 e gli 8 anni».

Niente feste di compleanno, niente giochi di gruppo e scarsi rapporti coi coetanei hanno interrotto la socialità dei bambini durante la pandemia. Lo psicoanalista Ammaniti: «L’esplorazione e la ricerca del mondo sono venute meno».

Quindici ore tra le esalazioni di zolfo o nella bolla domestica digitale non sono la stessa cosa. Ma, bambini o adulti, una cosa è certa: per svilupparci, apprendere, conoscerci e amarci abbiamo bisogno dell’altro nella sua interezza e integrità. Ciò che solo la presenza fisica può dare pienamente. Facciamo presto, facciamo bene tutto quello che serve per tornare a vivere e abbracciarci. E nel frattempo leggiamo ai nostri figli qualche libro di Sciascia, un siciliano scomodo.

Così Leonardo Sciascia: «Io ho dovuto fare i conti, da trent’anni a questa parte, prima con coloro che non credevano o non volevano credere all’esistenza della mafia, e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di avere scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio; e così via. Non sono infallibile; ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità».

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Pubblicato il 08 Gennaio 2021
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