Vita e destino lungo il fiume della salvezza: memorie della Shoah in riva al Tresa

Dopo il reportage che ha raccontato nel Giorno della Memoria la tragedia degli ebrei in fuga, alcuni lettori hanno proposto personali testimonianze

La memoria, quando è viva, è memoria di tutti i giorni. Quindi non deve stupire la grande attenzione per il tema della Shoah che ha visto nella storia del Varesotto, e non solo al confine, una delle vicende più vivide nella quale la tragedia del popolo ebraico ha assunto i toni più cupi.

Dal reportage pubblicato in fregio al Giorno della memoria non sono tardate ad arrivare testimonianze.

Ricordi dettati dal caso, dalla geografia ma prima fra tutti dalla qualità che nobilita la persona, e ne costituisce sostanza: è il coraggio che esplode quando si sceglie di difendere chi è in difficoltà. Di difendere, quindi, l’intera umanità.

Proprio come il caso di Donatella Gasparini da Lavena Ponte Tresa che propone la storia della sua famiglia.

«Ho pensato di raccontare di mio nonno, Locatelli Paolo Giulio classe 1896 che nell’inverno fra il ‘43 ed il ‘44 ha fatto passare il confine ad un gruppo di ebrei attraverso il fiume Tresa in località Sonneggio (tra Ponte Tresa e Cremenaga)».

«Non so dire come gli ebrei siano venuti in contatto con mio nonno perché è una storia che ho sempre sentito raccontare da bambina e i testimoni di tutto ciò, i nonni, mia mamma e i suoi fratelli sono morti da tempo. So per certo però che “l’amico” di mio nonno che aveva ricevuto una ricompensa per il passaggio effettuato lo ha poi tradito consegnandolo ai tedeschi che lo portarono prima al Miogni ed in seguito a San Vittore dove nonostante le botte subite non fece mai il nome di nessuno. Riuscì a tornare a casa nella primavera del ‘44 solo per un caso  fortuito; ma questa è un’altra storia…».

Storie di famiglia, si diceva. Ma ci sono anche famiglie divenute piccole dinastie di provincia che si distinsero per la lotta alle ingiustizie imputate a quella, o a quell’altra «razza», a quell’ideologia coltivata e fatta apposta marcire per stregare le masse e acquisirne il controllo costruendo a tavolino un nemico.

Per il nazismo, e il fascismo, era l’ebreo (ma non solo).

Giovanni Crosta di Cairate, animatore della pagina “Peveranza Storica”, racconta della fuga degli industriali Mayer di Cairate, proprietari della grande cartiera che fu da sostentamento per generazioni di varesini.

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Astorre Mayer dovette fuggire con la famiglia in Svizzera e ci riuscì «grazie al commendator Carlo Schapira uno dei soci del Cotonificio Bustese, il quale era riuscito a passare a Ponte Tresa in mattinata e tramite uno spallone ovvero un contrabbandiere fece avvisare i Mayer della possibilità di trovare il valico aperto».

Siamo nell’autunno del 1943 e l’ingegner Mayer venne a sapere del recente rastrellamento nel Ghetto di Roma e decise così di scappare oltreconfine con la famiglia e grazie al fido autista Ceriani, riuscì a raggiungere la salvezza.

Fu poi nei giorni immediatamente successivi al termine della guerra, nel 1945, che Villa Mayer divenne uno dei punti di transito dei pochi ebrei scampati all’inferno dei lager. Si legge negli appunti storici di Crosta: “Ricordo sempre le rose della villa Mayer di Abbiate come il ritorno alla vita dopo Auschwitz. Con queste parole un’ebrea scampata allo sterminio nazista espresse l’esperienza dei sopravvissuti transitati per Abbiate Guazzone (Tradate), uno dei centri di accoglienza allestiti in Italia lungo le tappe del travagliato viaggio verso la Terra d’Israele: a testimonianza del fatto che, nella seconda metà degli anni ’40 – dopo la Shoah e nonostante la Shoah – fu possibile, soprattutto in Italia, ricostruirsi come individui e come comunità”.

Semplici ricordi, qualcuno potrà pensare. Invece rappresentano testimonianze, e lettura di quegli anni e che non è mai abbastanza ripetere.

Del resto «l’indifferenza porta alla violenza, perché l’indifferenza è già violenza», scrive la senatrice Liliana Segre.

Andrea Camurani
andrea.camurani@varesenews.it

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Pubblicato il 04 Febbraio 2021
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