Marzo 1944, gli eroici operai che sfidarono Hitler, anche tra Varesotto e Alto Milanese

All'inizio del 1944 gli operai e operaie di centinaia di fabbriche tra Piemonte e Lombardia incrociarono le braccia, per chiedere la fine della guerra. Saronno fu uno dei centri della lotta, che non si fermò di fronte alle violenze dei fascisti e delle Ss

Generico 2018

«Per la salvezza vostra e dei vostri famigliari, accelerate la vittoria che interessa tutti i lavoratori».
Faceva freddo, nell’inverno 1943/44. C’era la guerra che portava la morte, la fame, la penuria di legno e carbone per scaldarsi: fu per mettere fine a tutto questo che nei primi giorni di marzo operai e tranvieri incrociarono le braccia, mettendosi in sciopero contro Hitler e il fascismo di Mussolini, che voleva continuare la guerra. Un gesto di coraggio: scioperare era illegale e tanti pagarono cara la loro scelta.

Tra loro ci sono anche tanti operai di Saronno, allora centro industriale di primo piano.
Come in tutta l’Italia occupata, anche qui erano costretta (in particolare nelle fabbriche Cemsa-Isotta Fraschini) a lavorare per la produzione bellica che serviva al Terzo Reich. Dai capannoni di Saronno uscivano mortai, cannoni, mitragliere, motori, camion.

A Saronno gli operai incrociano le braccia tra i primi, in contemporanea a quelli di Milano e Torino, principali centri della protesta.
Iniziano i 1800 lavoratori della Cemsa, il 1° marzo: arrivano la polizia e i fascisti, minacciano, alle 16.30 si riprende il lavoro.
La scintilla è però ormai innescata, il 2 la protesta raggiunge gli altri stabilimenti: tra i saronnesi – 2800 uomini alla Isotta Fraschini, mille della De Angeli Frua e 1200 della Manifattura Lombarda, in gran parte donne – “lo sciopero è stato generale”, riconosce l’indomani il notiziario riservato che la GNR (la Guardia Nazionale Repubblicana) compila e face avere ogni giorno a Mussolini.

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I capannoni della Cemsa pieni di cannoni anticarro da 47mm

Il 3 incrociano le braccia anche gli operai della Sama, lo sciopero nell’Italia del Nord è al culmine.
All’inizio occupanti tedeschi e collaborazionisti fascisti minacciano di far fare la fame agli operai che scioperano e alle loro famiglie: “Il comandante della 8a Legione GNR, un colonnello delle SS e il Segretario dell’Unione Lavoratori (i parasindacato fascista, ndr) si sono recati sul posto facendo diffidare gli operai a riprendere il lavoro entro la mattinata di oggi – 3 corrente – salvo sanzioni di carattere annonario”,  si legge ancora nei notiziari riservati destinati a Mussolini.

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Operai in sciopero alla Breda di Sesto San Giovanni, primi giorni di marzo 1944

Il 4  marzo a Busto Arsizio (dove a gennaio erano stati deportati gli operai della Comerio), Gallarate e Sesto Calende le minacce dei fascisti ottengono la ripresa del lavoro, ma Saronno non si piega: 70 operai vengono arrestati, alla De Angeli Frua i nazifascisti arrestano tutti i maschi (venti, in totale) ma le donne non si arrendono.
Il 5 marzo il lavoro è “ripreso solo parzialmente” nelle diverse fabbriche e la minaccia diventa violenza: “Le autorità germaniche hanno messo in campo di concentramento 50 scioperanti” da mandare nelle fabbriche del Reich (molto pagò anche la vicina Legnano).

I fascisti intanto si premurano di punire anche gli altri, disponendo “il divieto ai rivenditori di fornire generi alimentari agli operai che non comprovassero la loro presenza al lavoro”.

Tra i deportati in Germania c’è anche Bastanzetti: nato a Milano nel 1901 e operaio da quando ha dodici anni, nel 1943 era stato eletto nel primo nucleo del consiglio di fabbrica. I tedeschi e i collaborazionisti fascisti sanno che è uno attivo, finisce nella lista dei lavoratori destinati alla Germania: il 17 marzo viene arrestato, portato a San Vittore, poi a Bergamo, infine in Germania.

Viene inviato a Gusen. Nel sottocampo di Mauthausen i tedeschi hanno portato anche una parte degli impianti della Messerschmitt, per produrre aerei: il lavoro coatto qui si alterna a ogni genere di violenza, per punire gli italiani considerati traditori (all’arrivo uno dei deportati viene fatto sbranare dai cani).
Nelle officine in caverna l’aria è umidissima, Bastanzetti (nella foto qui accanto) si ammala di broncopolmonite: muore la mattina del 2 giugno 1944.

Oggi una “pietra d’inciampo” ricorda l’operaio-eroe in via Ramazzotti 12, nel bel palazzo di edilizia cooperativa dove si era stabilito nel 1934 e dove poi ha vissuto il figlio Giancarlo, instancabile divulgatore – fino alla scomparsa pochi anni fa – della tragedia dei deportati.

Bastanzetti non fu l’unico a Saronno a pagare con la vita quel gesto di lotta pacifica e disarmata.
Innocente Donzelli, di Cislago, morì a Mathausen il 2 settembre 1944, il saronnese Giuseppe Fustigelli il 4 ‘aprile 1945. Negli ultimissimi giorni della guerrail 23 aprile 1945 morì a Mauthausen il commerciante Luigi Caronni (deportato anche lui nel marzo 1944), il 26 Luigi Bardelli, gallaratese d’origine ma operaio a Saronno. Altri sopravvissero, portando nel corpo e nello spirito i segni di quei mesi di violenza e privazioni.

Pietra d'Inciampo in memoria di Luigi Caronni
La “pietra d’inciampo” dedicata a Caronni

Lo sciopero di marzo diede anche ai fascisti l’immagine che il loro potere si stava sgretolando: a Saronno già i quei giorni “la situazione economico alimentare” era definita “disagiata”, mancavano soprattutto grassi e verdura. Per tutto il mese di marzo anche nella città i tedeschi e le autorità collaborazioniste vissero nella paura di nuovi scioperi, che si ripeterono già a novembre (per carenze alimentari). Ogni volta operai e operaie rischiano, qualcuno viene licenziato, altri vengono deportati: la protesta veniva parzialmente tollerata solo quando riguarda richieste economiche o alimentari.
Il successivo, grande sciopero per chiedere la pace fu il 18 aprile 1945, anche a Saronno. Una settimana dopo arriverà l’insurrezione, la Liberazione, la pace

Tra le fonti:
Notiziari della GNR 3-9-15-30 marzo 1944, 17 novembre 1944, 18 aprile 1945
Giuseppe Nigro, Fuori dall’officina. La Resistenza nel Saronnese

Ass. Angioletto Castiglioni, I Caduti per la libertà della provincia di Varese

Roberto Morandi
roberto.morandi@varesenews.it

Fare giornalismo vuol dire raccontare i fatti, avere il coraggio di interpretarli, a volte anche cercare nel passato le radici di ciò che viviamo. È quello che provo a fare a VareseNews.

Pubblicato il 03 Marzo 2021
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