Un anno “in bolla”: il Gulliver di Varese racconta l’isolamento delle comunità durante la pandemia

In realtà le comunità intorno a Varese vivono sempre d'interscambio, tra gli operatori e chi vive dentro. L'anno del Covid ha chiesto nuove risposte e attenzioni

Cantello - Gulliver

Come si vive la pandemia dentro a una comunità di accoglienza? Lo racconta il Gulliver di Varese, che lavora con persone con dipendenze (da sostanze, da alcol, da gioco d’azzardo), con problemi psichiatrici e bisognose di reinserimento sociale e lavorativo.

«Un anno in cui abbiamo dovuto necessariamente reinventarci: tanti cambiamenti nella vita del centro, molto spesso repentini, prima impensabili». C’è l’aspetto squisitamente sanitario, per la necessità di proteggere ospiti e operatori, ma anche la cura dal punto di vista psicologico, spesso di fronte a fragilità già esistenti.

“Oggi, ad un anno di distanza, abbiamo raccolto le testimonianze di alcuni dei nostri Operatori e i nostri dati più significativi.
Desideriamo condividerle con ciascuno di voi, perché ne resti traccia e se ne possa fare memoria”.

“Mi ricordo gli ospiti. Finché lo vedevano al TG, il covid era una cosa lontana, ma quando abbiamo messo le mascherine é stato vero. Più di un ospite é andato nel panico. Abbiamo passato la giornata a convincere delle persone a non andare via, perché lì dentro erano protetti, ma fuori era pericoloso, c’era il lockdown (quello vero) e non si poteva andare in giro”.

“Improvvisamente chi era in comunità non era più uno sfigato incapace di stare nel mondo, improvvisamente chi viveva in comunità era fortunato, perché aveva una socialità che il lockdown aveva tolto a tutto il resto del mondo”.

“Sono stati tre mesi duri quelli di marzo, aprile e maggio. Stop alle visite, stop alle uscite, stop agli ingressi, stop ai volontari e ai tirocinanti, stop ai pacchi da casa, così, all’improvviso. Stop ai fornitori non essenziali”.
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“Abbiamo trovato altri momenti e altri modi per la nostra socialità. In questo anno abbiamo trovato altri modi per tutto. E alcuni di questi credo rimarranno, come una grande ricchezza, anche quando (non SE, ma QUANDO) sarà tutto finito”

“Il coronavirus mi sta insegnando anche tanto altro: Che in un metro di distanza si possono fare un sacco di cose; Che i sorrisi si vedono anche dietro una mascherina; Che fare un lavoro che si ama è una gran fortuna; E che tutti, ma proprio tutti, spesso siamo impreparati alla vita,
ma lei per fortuna non lo sa e va avanti, spronandoci a rimetterci in pari e andare avanti ad 1 metro di distanza, ma tutti insieme”

“Prima del covid, nelle nostre comunità di Cantello i nostri Ospiti erano abitati da tante paure. Con la pandemia anche noi Operatori abbiamo iniziato ad avere paura. Questo ci ha fatti sentire più simili, più uniti. È come se, all’improvviso, si fosse ristabilito un equilibrio”

“Nelle nostre comunità di Cantello si è passati da una forte apertura verso l’esterno – elemento chiave di un lavoro di inclusione e di  reinserimento sociale – al restare permanentemente all’interno delle strutture. Si può dire che questo “restare dentro” abbia comunque segnato, paradossalmente, un punto a favore dell’integrazione dei nostri ospiti nel tessuto civile. È maturata in loro la consapevolezza che il restare in comunità era il loro contributo di liberi cittadini responsabili al bene comune, non solo l’obbedienza necessaria ad un divieto.”

“I miei ‘ragazzi’ subiscono già un male subdolo che non si vede, che li stigmatizza a livello sociale. Parte del mio lavoro ha come obiettivo il reinserimento sociale… Vuol dire poter passeggiare per strada senza essere guardati strani, vuol dire poter essere degni di vivere, vuol dire che li puoi tenere per mano e li puoi abbracciare e non ti contagiano. Forse ora in tanti vivono quello che loro vivono quotidianamente… persone che si allontanano e tengono le distanze per paura di essere infettati!”

“Sapete cosa mi fa male? Dovergli dire che non possono avvicinarsi, che non possono toccarmi, mi fa male nascondere un sorriso dietro ad una mascherina. Mi fa male pensare che se mai dovesse entrare il virus in comunità, potrei essere stata io! Mentre io voglio solo proteggerli, perché loro hanno già il loro ‘virus invisibile’. Mai come ora ci si può immedesimare…paura e ansia da contagio, depressione da isolamento e mancanza di affetto, incertezza sul futuro, comportamenti antisociali e opposizione…”

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 26 Marzo 2021
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