Pierantozzi, la toga, la vita e Varese. Tutto quello che mi disse quella volta

Primavera del 2004: Giovanni Pierantozzi, promosso procuratore a Trento, lasciava Varese dove era arrivato nel 1959. Gianni Spartà gli fece questa intervista che nell’’ora dell’addio ha connotazioni struggenti

pierantozzi apertura

Primavera del 2004: Giovanni Pierantozzi, promosso procuratore generale a Trento, lasciava Varese dove era arrivato nel 1959. Gianni Spartá gli fece un’intervista pubblicata sulla Prealpina che, riproposta in forma rimaneggiata nell’ora dell’addio, ha connotazioni struggenti e rappresenta il personale affettuoso omaggio dell’autore al magistrato scomparso.

“Imputato” Pierantozzi Giovanni, direbbe ancora che i varesini, innamorati del lavoro e dei danèe, non si fermano ad ammirare un bel tramonto per non perdere tempo? 

Nella penombra del suo ufficio, il procuratore ride di gusto, ripensando al “processo” più buffo della sua vita. Ancora più buffo di quello per i trascorsi repubblichini di Dario Fo: non smentiti, anzi tramandati ai posteri da una sua sentenza scritta col veleno. «No, non lo direi più», risponde, «ma solo per non essere frainteso la seconda volta». Spieghiamo: finivano gli anni ’70 e Nantas Salvalaggio, inviato di “Oggi” si fece raccontare tra gli altri da Pierantozzi la vita quotidiana nella bella e sazia Varese.  Lui, ingenuo, disse quel che tutti sappiamo: qui si corre, si briga, si compete, si sfonda, Piero Chiara la chiamava “propensione all’accumulo”. L’altro, vecchia volpe dei gazzettieri, riportò il pensiero tra virgolette, pennellando sul tramonto galeotto. Apriti cielo. S’adontò un cronista locale e reagì acido: «Se quel giudice non sta bene tra noi, si faccia trasferire».  “Volto abbronzato e buona racchetta”, come di lui avrebbe scritto inviperita Camilla Cederna non perdonandogli la condanna per il libro su Leone,  Giovanni Pierantozzi incassò il colpo, imparò a diffidare dei giornalisti, s’attaccò a Varese come una cozza allo scoglio. Altro che trasferirsi.

Procuratore, di Varese scrivevano “provincia tranquilla quasi svizzera dove non succede mai nulla”. Montanelli negli anni ’60 la paragonò a un “deserto ben attrezzato”. Sbagliavano?

«Beh, sicuramente in buona fede», dice lui. «La metafora dell’Isola felice stride con gli anni dei processi al terrorismo quando scoprimmo che qui, ben nascosti, si davano un gran da fare i predicatori di odio e i cattivi maestri. Corrado Alunni stava a Tradate, a Casciago furono presi con il tritolo Zani e Di Giovanni, due neofascisti che meditavano di far saltare stadi e dighe. Non abbiamo avuto a casa nostra, per fortuna, stragi e attentati, se si esclude il rogo appiccato a un deposito della Bassani a Venegono, ma il Varesotto si rivelò fucina di combattenti, chiamiamoli così, finiti alla sbarra a Milano al processo Rosso-Tobagi».

 Disattenzione o sottovalutazione? 

«Tutte e due. Da parte dell’opinione pubblica e anche di noi custodi della legge. E il giudizio vale per le infiltrazioni della criminalità organizzata.  Ricordo un dibattito alla Schiranna nei primi anni ’90. Qualcuno, che aveva responsabilità, escluse la presenza della mafia a Varese. C’ero anch’io alla tavola rotonda e sobbalzai sulla seggiola. Proprio in quel periodo pentiti, dapprima non creduti, raccontavano come la ’ndrangheta calabrese, passata dal contrabbando alla droga, dal racket delle estorsioni ai rapimenti, aveva installato sue ambasciate nel triangolo Varese-Como-Milano».

 Gennaio del ’90: svanisce il sequestro di Antonella Dellea a Germignaga. Svanisce perché Antonio Zagari, tradendo suo padre Giacomo, ha consegnato ai carabinieri il commando salito dalla Locride…

«E fu la conferma del teorema delle infiltrazioni e l’inizio delle fine per decine di boss e picciotti processati poi nel bunker dell’ex Aermacchi. Che Zagari padre fosse un boss, un importante punto di riferimento, nessuno lo aveva capito».

 Dalla Calabria politici di rango, come il senatore Mancini, presentarono interpellanze per i fatti di Germignaga dicendo che i quattro del commando potevano essere solo arrestati, non uccisi. Ricorda?

«Ricordo eccome. Da quel momento mi ritrovai con la scorta anche perché dissi pubblicamente quel che pensavo. E cioè che in quel modo, con quelle assurde polemiche, si contribuiva a diffondere e a promuovere la cultura dell’anti-Stato. Momenti cupi: scaricavo le tensioni dando sberle a una palla da tennis»

 Lei, per temperamento e inclinazione, è nato giudice. Poi, nel mezzo del cammin, si è ritrovato procuratore, cioè toga di parte. Qualcuno aveva scommesso che avrebbe rifiutato il trasbordo…

«Avevo scommesso anch’io pensando a quando, dall’alto di uno scranno della giudicante, guardavo con distacco i pubblici ministeri. Tra me e me dicevo: l’ultima parola spetta a noi del tribunale e non era superbia ma profondo rispetto per la funzione di coloro che amministrano giustizia in nome del popolo italiano. Poi mi convinsi a fare il salto».

 Pentito?

«No. A me stesso ho dato la seguente giustificazione: se sei stato giudice, puoi fare il pm con la stessa testa. Puoi capire che se mai, da giudice, potresti condannare uno in assenza di prove convincenti, perfettamente inutile è arrestarlo».

Com’è cambiata la magistratura in questi anni?

«Ora volete farmi fare la figura del vecchio brontolone che rimpiange i bei tempi. Ho un buon ricordo dello spirito di squadra che caratterizzò il periodo dei processi ai terroristi. Faccio qualche nome di colleghi: Tatozzi, Curtò, D’Agostino, Polidori, Materia. Sapevamo di correre rischi non piccoli, sapevamo che tanti radical-chic tifavano per gli eversori e non per noi giudici, certa stampa ci tirava contro. E sui muri comparivano queste delizie: “Pierantozzi comincia a tremare, anche i proletari sanno condannare”, “Pierantozzi fai fagotto o prendiamo la P38”. Tutto ciò cementava, tra noi, amicizia e solidarietà».

Tre misteri a Varese: l’omicidio di Lidia Macchi, quello dell’avvocato Ciappina, il sequestro di Andrea Cortellezzi….

«Misteri e delusioni profonde per motivi diversi. Forse anche sconfitte che mi porto dietro e dentro».

  Magistratura e politica. Tanti hanno lasciato la toga per il Parlamento…

«E nessuno può impedirglielo a patto che si abbia poi il pudore di non tornare sui propri passi».

 Amministrare giustizia nella città della Lega: com’è andata in questi anni?

«Buoni rapporti, mai difficoltà, se si eccettua l’infelice uscita con cui Umberto Bossi apostrofò il dottor Agostino Abate durante un comizio a Legnano».

 Abate fu attaccato, per le sue inchieste, non solo dalla Lega: un magistrato scomodo?

Lunga pausa: «Io so che è un grande lavoratore. E quando si lavora troppo il rischio di diventare scomodi c’è»

 Pensierino della sera: dedicato a chi?

«A una città nella quale ho avuto una vita sociale intensa senza correre mai il pericolo di subire condizionamenti. Una sola parola: grazie».

di
Pubblicato il 19 Aprile 2021
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