Esserci e raccontare: il primo canovaccio della storia è il buon giornalismo

L’incontro fra passato e presente a Glocal con due professioni a confronto che possono fondersi nella figura del giornalista storico

Festival Glocal 2021

Erano i tempi del grande Post e della rivalità col New York Times che sarebbe in realtà diventata complicità nella pubblicazione dei “Pentagon Papers”, analisi riservate che dimostrarono la consapevolezza dei governi USA che la guerra in Vietnam sarebbe stata persa, e una donna di mezza età,

Katharine Graham, divenuta proprietaria del giornale disse all’allora direttore del quotidiano Benjamin “Ben” Bradlee che “Il buon giornalismo è il canovaccio della storia”.

Una scena memorabile raccontata nel film “The Post diretto dal 2017 da Steven Spielberg appunto con Meryl Streep e Tom Hanks (interpreti del dialogo citato sopra) per spiegare come il contatto fra storia e cronaca è argomento affascinante che sfocia in una parola: metodo.

Il metodo è un punto comune di questi die mestieri ed è il prezioso granello di sale uscito dall’incontro che Glocal ha voluto destinare proprio al tema del tempo – fil rouge dell’edizione del decennale – a cui hanno partecipato storici e giornalisti moderati da Roberto Morandi, penna gallaratese di Varesenews.

Così la nascita delle Brigate rosse e la sua narrazione in diretta, per esempio, che ha raccontato una delle grandi firme del giornalismo italiano, Pier Vittorio Buffa diventa tassello per il racconto del passato che porta acqua proprio al mulino della storia perché «un giornalista può contribuire alla storia se aggiunge fonti, notizie e particolari alla narrazione che diventa storia, ma il giornalista può’ nella sua attività permettersi di raccontare anche arbitrariamente solo un punto di vista, lo storico no; il cronista è inoltre in grado di raccontare un’emozione, fatto che allo storico torna difficile».

Esiste la cronaca di storia secondo Buffa cioè raccontare il passato con gli strumenti de giornalista, cioè diventare un cronista della storia. Altra differenza fra i due “mestieri” riguarda le fonti: mente per il giornalista vi è la possibilità di mantenerle anonime, per lo storico questo non è possibile, come ha spiegato Isabella Insolvibile, storica militare e ricercatrice per la Fondazione Museo della Shoah e per l’Associazione Nazionale Veterani e Reduci Garibaldini che si è occupata nelle sue ricerche delle stragi naziste emerse tardivamente nel dibattito italiano sull’Ultima guerra, come nel caso di Cefalonia.

Ma la storia, può entrare in redazione? Sì, ed è auspicabile che questa venga trattata proprio da figure professionali che abbiano le competenze per affrontare questi temi, come ha spiegato Nicola Maranesi giornalista, autore e conduttore di documentari e programmi televisivi e radiofonici per Rai Storia e Radio3, ricercatore dell’Archivio diaristico nazionale, è autore per il Mulino del volume “Avanti sempre. Emozioni e ricordi della guerra di trincea 1915-18“.

Ma il materiale che arriva sulla punta della penna di un giornalista o di uno storico, alla fine, che fine fa?

Possono nascere a questo proposito operazioni culturali di grande interesse che esulano dal semplice articolo o dal saggio storico: giusto in una passata edizione di Glocal (una delle prime) uno dei passi più drammatici della storia italiana rappresentato dalle stragi nazifasciste dopo l’autunno del 1943 diventò testo di una toccante pièce teatrale, “Io ho visto”, testimonianza attuale di una storia resa viva e che altrimenti sarebbe andata persa.

Andrea Camurani
andrea.camurani@varesenews.it

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Pubblicato il 13 Novembre 2021
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