Luigi Barion, dal Polesine a Varese dopo l’alluvione del ’51: “Oggi parlo il dialetto bosino”
Noto per l'impegno nell'associazione risorgimentale "Varese per l'Italia", Barion viene da Arquà Polesine, lasciato quando era bambino

«L’acqua si portò via un angolo di casa nostra». Luigi Barion, noto per il suo impegno nell’associazione “Varese per l’Italia”, è ormai un varesino doc, ma d’adozione. Perché arrivò, bambino, dopo che la sua famiglia aveva dovuto abbandonare il Basso Veneto a causa della devastante alluvione del Polesine del 14 novembre 1951, settant’anni fa.
Barion il 9 e 10 ottobre – con la sua famiglia – è stato ospite nel suo paese di origine, Arquà Polesine, per la commemorazione di quella tragedia ormai lontana ma così viva nella memoria – diretta o famigliare – di chi vive ancora nel Polesine e forse ancor di più di chi ha dovuto lasciare quella terra. «Io sono del ’47: ero bambino, quando è successo» racconta Barion. ««Eravamo in quattro, papà, mamma e mio fratello. La nostra casa era completamente inagibile. Ci siamo rifugiati a casa della nonna, eravamo una ventina al primo piano di questa casa solida che resisteva all’acqua».
«Abbiamo fatto diversi giorni senza mangiare, i primi aiuti sono arrivati quattro giorno: gli elicotteri americani che scaricavano sacchi di viveri, gallette, scatole. Urla generali, da una casa all’altra».
Con i campi invasi da milioni di metri cubi d’acqua divenuta quasi stagnante, per molti si aprì subito la via dell’esodo. «Dopo venti giorni ci hanno trasferiti: prima siamo stati all’Ospizio Soldi a Cremona, dove dormivamo sotto un portico».

Ci fu un rientro ad Arquà Polesine, ma apparì subito necessaria la via dell’emigrazione da quella terra già povera e ora alle prese con i danni dell’esondaizone: «Mio padre, chiamato da amici di Varese che si erano già trasferiti aprendo una trattoria, è salito a Varese nell’autunno del 1951. Ha trovato un posto da parrucchiere a Binago, poi ha cercato e trovato una casa a Gavirate, nel 1954».
Dopo i capifamiglia o i figli maggiori che facevano da apripista, toccava al resto della famiglia.
L’accoglienza fu buona, anche se non sempre lineare. «Inizialmente non siamo stati accordi con la banda musicale» dice con ironia Barion. «Eravamo i “terroni del Nord”, ci chiamavano così». Attingendo alla memoria di famiglia, cita un aneddoto che racconta un po’ anche i pregiudizi verso i veneti: «Mia zia ha chiesto ad una signora dove poteva comprare una spagnoletta, termine che da noi indicava il filato. una signora le ha urlato “ritorni al suo paese”, pensando stesse chiedendo da mangiare. Ma sappiamo che c’è del buono e il gramo in tutti, nei veneti come nei varesini».

De Biase, Frison, Bison: parecchie famiglie si stabilirono anche nella zona tra Varese e Laveno, così come nel Tradatese o nella zona tra Gallarate, Busto e Malpensa. «Rispetto ad altre migrazioni dal Sud i veneti furono accolti anche bene, seppero farsi voler bene».
«Io ho fatto il chierichetto, qualche problema a scuola l’ho avuto all’inizio a scuola, perché noi parlavamo sempre il dialetto, a casa». E con la simpatia che lo contraddistingue chiude con un’immagine la sua storia: «Oggi invece leggo e scrivo anche in dialetto bosino».
A ottobre – a conferma del forte rapporto con la terra d’origine – è stato ad Arquà per una due giorni che ha visto anche l’omaggio al fotografo Vittorino Vicentini, maestro e fotografo documentarista, con mostra fotografica e spettacolo teatrale sulla tragedia del 1951.
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Grande, grande, grande Luigi Barion!!!
Un vero Signore che ha saputo sempre conservare l’orgoglio delle proprie origini!
Un privilegio averti conosciuto e aver lavorato con Te!!!
Bruno Paolillo
Avevo 6 anni quando successe l’alluvione del Polesine. Abitavo alle porte di Ferrara e frequentavo la prima elementare. Nella nostra classe avevano messo delle brande Davanti a ognuna stava una donna con a fianco un sacco di iuta che conteneva tutto quanto avevano potuto salvare A noi era stato chiesto di portare dei giochini per i loro bambini.