Continua il viaggio alle origini della Cri di Luino con il racconto di Bruno Ferrari, uno dei fondatori

Una lunga e ricca esperienza che da semplice volontario l’ha visto crescere e diventare prima vice-ispettore e poi ispettore, ma il suo animo è rimasto quello di sempre: una persona pronta a essere vicino e soccorrere chi soffre.

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(Intervista a cura di Patrizia Martino)

«Sono stati avventurosi e duri quei primi anni di volontariato in Croce Rossa», così inizia a raccontare Bruno Ferrari, uno dei fondatori della Croce Rossa Valli del Verbano.

La narrazione, che verrà sostenuta con l’introduzione di ulteriori particolari e storie da parte di Pietro Rossi, uno dei primi volontari della Cri Luino, diventa man mano sempre più avvincente. La passione e l’entusiasmo sono ancora vivi non solo nel racconto, ma anche nella voglia di fare e di dare il massimo di se stessi che permane dentro di loro, quale segno peculiare del loro modo di concepire la vita

Da una parte del salotto all’altra, dove si sono accomodati Bruno e Pietro, rincorrono i ricordi che si susseguono velocemente, sembra vengano tirati fuori uno dopo l’altro dal profondo pozzo del tempo come legati da un’invisibile corda.

Si risale nel tempo fino al ’78, quando a Luino esisteva solo il sottocomitato femminile e le ambulanze erano con il personale dell’ospedale, successivamente si passò a due volontari.

I volontari si contavano sulle dita di una mano e non avevano un posto dove stare, successivamente se ne aggiunsero altri fino a diventare una decina.

Le due ambulanze a disposizione erano nei box dell’ospedale. Si stava in pronto soccorso e si dava una mano all’occorrenza. Lì si potevano imparare i rudimenti del soccorso, stando a fianco dei medici in servizio, spesso nasceva poi un’amicizia che alleviava la fatica e lo stress.

Erano tempi duri. Bruno Ferrari riconosce l’importanza dell’educazione rigorosa ricevuta alla scuola dei Salesiani e a 17 anni l’esperienza di sei anni in Marina: la fatica e la severità, il rigoroso rispetto delle regole, tutto questo è servito a dargli quella forza interiore che sola poteva fargli affrontare le incredibili situazioni di emergenza che ha trovato nella sua esperienza di volontario CRI. Spesso faceva servizio tutta la notte. Il mattino una bella rinfrescata al viso con acqua fredda, un caffè e via di corsa a lavorare in Svizzera.

Sorride Ferrari ricordando il lungo cavo del telefono, che attraversava la casa e nel quale spesso i familiari inciampavano. Arrivava fino al comodino accanto al letto, in camera, perché così di notte poteva rispondere al volo. E con piacere ricorda la vivacità degli incontri tra i volontari, la capacità di discutere anche urlando per poi trovare un accordo e concludere, come sempre, con rafforzata amicizia.

C’era entusiasmo nel fare. A volte occorreva anche una buona dose di capacità di avventura. La motivazione era molto alta, c’era il piacere di sentirsi utili, sentirsi parte viva della collettività. Partivano senza fare troppe domande: «c’era bisogno e si andava», dice Bruno Ferrari.

Erano in pochi, ma la voglia di fare e di esserci era tanta. Occorreva una grande capacità di leggere le situazioni, soprattutto quando si guidava l’ambulanza. Ferrari racconta che, in occasione del venticinquesimo anniversario della Croce Rossa, un giornalista del quotidiano “La Prealpina” gli chiese cosa avessero lasciato in lui gli anni trascorsi in Croce Rossa e lui rispose in modo spontaneo ed immediato: «Non sono gli anni ma quello che si fa ogni giorno che lascia qualcosa».

All’inizio degli anni ’80, con l’allora presidente signora Silvana Battiston – Coquio, venne organizzato un mini corso di due lezioni con personale inviato dal Comitato di Varese: si venne a sapere così che i volontari del soccorso (VDS) a Luino non esistevano.

Il racconto di Bruno Ferrari diventa più vivace nel ricordare quando si decisero a chiedere come fare per formare un gruppo CRI a Luino. Vennero accolti calorosamente nella sezione di Varese, dove Bruno si era recato con un altro volontario, Ferrari Sergio. L’allora presidente provinciale Antonini disse che speravano da tempo di poter avere qualcuno interessato a ciò.

All’inizio in ospedale alcuni non apprezzavano la loro presenza, venivano vissuti un po’ come degli intrusi. Fino all”’84 le divise consistevano in un grembiule bianco con lo stemma della CRI e dagli anni ’90 si iniziarono ad indossare divise formate da pantaloni e giacche blu con strisce catarifrangenti.

Il gruppo si formò ufficialmente nell’’86. Finalmente nel gennaio dell’’85 si arrivò a organizzare il primo corso di formazione. Elenca i nomi dei medici formatori, è come se li vedesse passare in rassegna davanti a sé: Zanni, Fellegara, Andreoni, Folcia, Merlo, Tamborini…

Ricorda con precisione quei giorni, che si sovrappongono a un altro dolore personale: la perdita del padre. 

«Non ho potuto fare nulla – sembra dire a se stesso Bruno Ferrari – è stato un infarto fulminante». Quasi a voler sottolineare l’importanza di dover accettare ciò che la sorte ti riserva e a mantenere alta l’umiltà quando ci si predispone a voler essere di aiuto agli altri.

E’ una lunga e ricca esperienza che da semplice volontario l’ha visto crescere e diventare prima vice-ispettore e poi ispettore, ma il suo animo è rimasto quello di sempre: una persona pronta a essere vicino e soccorrere chi soffre.

Pietro Rossi, invece, ricorda gli anni in cui maturò la volontà di entrare in CRI. Erano per lui anni di dolore e fatica, che richiedevano una grande capacità di resilienza: guardare avanti e sperare, fiducioso di arrivare alla fine del tunnel.

Come sempre la storia personale si intreccia con l’impegno sociale e ne determina la bellezza delle sinergie che vengono prodotte. Rossi arrivò in CRI nel ’91, dopo l’esperienza di una grave malattia del figlio e di un severo incidente della figlia al cui soccorso partecipò Bruno Ferrari.

Dopo aver visto tanta sofferenza decide di fare qualcosa per essere di aiuto ed è un manifesto che annuncia un corso di formazione della CRI, che determina la sua scelta: il 1 aprile 1991 diventa così soccorritore.

Entrambi sorridono nel ricordare alcuni soccorsi memorabili e alcuni personaggi particolari, come l’amico volontario Gianni (il Mena) che riusciva a considerare la morte con estrema naturalezza tanto da riuscire a dormire, per sfuggire al caldo, tranquillamente in obitorio, tra i morti, per recuperare il sonno nei momenti di pausa.

Nel 90% dei casi, quando si usciva per un soccorso, si recuperava il paziente e lo si portava direttamente al pronto soccorso. Si comunicava con l’ospedale via radio e poiché si poteva essere intercettati dai radioamatori, la comunicazione avveniva utilizzando dei codici: per esempio, “sono in 930” significava sono libero, 931 invece era per indicare che si andava a fare il rifornimento del carburante, codice 100 indicava che il soccorso era deceduto. Non mancavano intercettazioni “piccanti”, come quella del radioamatore che concordava l’incontro con l’amante una volta che gli veniva data via libera.

Quando c’era l’esame di guida, a Varese, dovevano segnalarlo alla polizia perché facesse assistenza. L’esame era una simulazione “live”, come si direbbe oggi. Si stava in postazione con l’ambulanza fino a quando giungeva la richiesta di soccorso, si partiva allora a sirene spiegate nel traffico della città.

Ricordano soccorsi particolari e dal racconto, piuttosto raccapriccianti: arti da ricercare nei dintorni dell’incidente, teste mozzate, corpi carbonizzati. Ci vuole una grande capacità di controllo, coraggio e un grande amore verso il prossimo. Loro, pionieri della CRI di Luino di queste doti ne avevano in abbondanza. Ricordano che i volontari si risentivano se non venivano chiamati per i turni.

L’istituzione del 118 a livello nazionale nel ’98 segnò una svolta epocale nella storia del soccorso. Alcuni non seppero accogliere il cambiamento e si sentirono proiettati in qualcosa di più grande e anonimo, così purtroppo, si ritirarono. Se da un lato veniva limitata l’autonomia decisionale, dall’altra vi fu un notevole aumento della professionalità. Fu dato un codice di comportamento con modalità di intervento uguali per tutti.

Finalmente a Luino si riuscì a partire come si doveva, proprio con l’arrivo del 118. Dal 2000 per diventare soccorritori occorre acquisire l’accreditamento al 118. Si incominciò anche la divulgazione nelle scuole, che ora è ritenuta un elemento importantissimo nell’attività di CRI. Fino a quattro anni fa la CRI faceva parte del Ministero degli Interni, poi è diventata un ente autonomo, anche se rimangono sempre il rispetto e l’applicazione dei regolamenti. Insomma occorre essere sempre pronti al cambiamento.

Prima del ’98 la CRI era composta da “Componenti” ora invece troviamo le “Aree” precisa Bruno Ferrari, mentre Pietro Rossi rimanda al suo libroCroce Rossa Italiana – Io uomo di CRI” in cui riporta, con prosa poetica, alcune esperienze di vita da volontario, alcune interessanti e belle foto e, in chiusura, l’organizzazione della CRI, con le sei aree (salute-sociale-emergenza-diritto internazionale umanitario (DIU)-giovani-sviluppo).

Guardano entrambi al futuro certi che i giovani di oggi sapranno far tesoro di tanto impegno e lavoro ed entrambi sono convinti che con la partecipazione attiva dei volontari, si riuscirà a migliorare sempre di più il servizio. «C’è ancora tanto da fare – riflette Pietro – soprattutto nella preparazione all’ascolto e nell’attenzione all’aspetto psicologico del rapporto tra le persone».

Sono testimonianze-dono che invitano a riflettere, ci portano a interrogarci sul significato del nostro vivere terreno, del senso che possiamo dare alla nostra esistenza, fatta di giorni “che dovremmo vivere con il cuore”, parafrasando la chiusura del libro di Pietro Rossi, la perfetta sintesi dell’esperienza sua e dell’amico Bruno Ferrari.

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 31 Gennaio 2022
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